Ho questa sottile ansia addosso ormai da un anno. E vado dal mio psicologo, Ze Ze, e gliela racconto ogni volta, a Monza il lunedì dalle tre alle quattro del pomeriggio. E lui mi guarda e mi dice sempre: “Tieni duro. Passerà”. Ma non passa mai, né a me né ai miei amici, e allora, visto che va avanti da un bel po’, io provo a dargli un nome. Penso si chiami ingiustizia, che da quando sono nato, il 1977, nel mio Paese si era vista raramente e poi, appena era comparsa, aveva visto migliaia di persone pronte a ribellarsi, donne e uomini che scendevano in piazza solo per dire il loro no.
C’è il covid. Non sono un negazionista, è una malattia che esiste e che fa danni. Uccide un sacco di gente, ma ci intristisce diversamente a secondo del nostro conto corrente e della nostra età. Ad esempio non fa morire di fame i capitani di industria, che, nonostante gli operai siano tutti appiccicati nelle loro aziende, vanno avanti e pure gli battono le mani. Non impoverisce i nostri politici, tutt’altro, anzi loro da questo casino ci guadagnano, perché nell’emergenza non c’è controllo, si fa per dei mesi quel cazzo che si vuole, spartendo gli euro che arrivano dalla Germania con i famigliari, e, quindi, ingigantendo il loro stipendio che è già bello grosso.
Ora io, che non sono nessuno, un misero giornalista di provincia, ieri tornando dal lavoro, ero certo che quelli che decidono cosa dobbiamo fare per salvare gli italiani da sto figa di coronavirus, ce l’avessero con me, che gli stessi sui maroni forse perché sono roscio di capelli e che captassero i miei progetti con delle microspie belle potenti a casa mia.
Faccio il giornalista sportivo, mi occupo di calcio dilettanti, e lo hanno eliminato (ma cosa c’è di diverso rispetto alle fabbriche, ai dipendenti distanziati che hanno fatto un bel tampone?), e pure scrivo di tifosi dell’Atalanta, quelli che vanno allo stadio, ma che adesso non ci possono più andare (ma cosa c’è di diverso rispetto alle fabbriche, ai dipendenti distanziati che hanno fatto un bel tampone?). Faccio lo scrittore, avevo ventisette presentazioni nelle biblioteche, e le hanno chiuse (ma cosa c’è di diverso rispetto alle fabbriche, ai dipendenti distanziati che hanno fatto un bel tampone?). Faccio il cantautore, scrivo canzoni tristi, per tagliarsi le vene se si è single, o per limonare duro se invece si ha la fidanzata. Ho una decina di brani nuovi nel cassetto, mi piacerebbe cominciare a suonarli in giro con quattro musicisti jazz, ma i concertini li hanno proibiti (ma cosa c’è di diverso rispetto alle fabbriche, ai dipendenti distanziati che hanno fatto un bel tampone?).
Va beh, ci pensavo sul terrazzo, da padre di famiglia, che ha visto ieri pomeriggio il suo secondo, Zen, incazzato duro, perché a scuola, Seconda Media, non ci potrà più andare (e che oggi è stato buttato fuori dalla classe, che ormai è la famigerata Meet, dalla sua professoressa arrabbiata per via della connessione che a casa nostra non va così bene).
Comunque stanotte, messi a letto i miei due figli, per via di una bottiglia di Prosecco regalata da chissà chi, mi sono messo a fare i prossimi tre cocktail dell’estate. Ve li elenco, sono lo Zona Arancione, che è un bicchierone di vino, poi un quartino di succo al mandarino, un altro po’ di ace per chiudere il tutto col crodino agli agrumi. Ero talmente ispirato, che ho fatto lo Zona Arancione Scuro, con l’aggiunta dell’Aperol. E poi lo Zona Rossa, con due dita di rum, per stordirmi. Alle due ero ubriaco fradicio, quello che tocca a noi comuni mortali che scriviamo di pallone o che abbiamo ristoranti o bar, che suoniamo o che i musicisti li ospitiamo, che giochiamo a pallone, ma che non siamo Ibra né Cristiano Ronaldo, che andiamo a scuola perché crediamo sia un bene insegnare. E che non valiamo tanto come gli eletti del nostro Paese. Ma bevendo ce ne si dimentica. E d’improvviso si torna tutti uguali.
Matteo Bonfanti