Ore 13:32. Puntuale nemmeno fossi un treno svizzero parto da via Gandhi alla guida di un bus cento per cento elettrico, che se lo vedi dall’esterno è un mezzo da paura perché i colori giallo/nero/bianco sono sapientemente distribuiti su tutta la carrozzeria, mentre i vetri oscurati, gli inserti grigio scuro, i cerchi in lega completano l’opera rendendolo altamente distinguibile ed apparentemente invidiabile.
La linea che devo seguire è quella del centro. Più precisamente sul cartello, sul tabellone luminoso in testa al veicolo c’è scritto C1H, ossia direzione ospedale Papa Giovanni XXIII, proprio verso quella struttura divenuta tristemente famosa in tutto il mondo. L’autobus a quell’ora è quasi vuoto infatti ci sono solo due donne: una boliviana e una rumena (credo). Giunto all’altezza di piazza Sant’Anna una terza persona, una ragazza impegnata a parlare al telefono, agita la manina senza nemmeno guardare il pullman. Mi fermo, apro, richiudo, riparto, il tutto con la stessa velocità d’un cambio gomme della Red Bull di Formula 1. La fanciulla intanto si è seduta in un posto precluso alla mia vista perché nascosta dall’emettitrice rossa presente su ogni autobus. non la vedo riflessa nello specchio, e solitamente non è un problema per me, ma avverto un bisbigliare concitato che stimola la mia naturale curiosità. Alt un attimo: qui mi vedo costretto a fare una precisazione. Io non sono un ficcanaso come sostiene Matteo il mio direttore, sono geneticamente programmato per interessarmi ad un fatto che merita attenzione ma so anche farmi i fatti miei… in genere, quando lo capisco. Comunque, ritornando alla dolce fanciulla o presunta tale, mi sembra che il sussurro sia molto simile al pianto ma non riesco a fugare il dubbio appunto per quella scatola rossa sforna biglietti che me la nasconde. Al primo semaforo utile ne approfitto per girarmi con elegante noncuranza, fingendo di controllare non so che cosa, protetto dalle lenti scure dei miei occhiali ma… cazzo non la vedo. La cosa comincia a darmi fastidio soprattutto dopo aver percepito alcune sue parole pronunciate in tono marcato: “Non doveva trattarmi così”. In quel momento scoppia una bomba nella mia testa. Non so se dovuto alla mia fantasia o se lei realmente avesse alzato il tono di voce ma sentivo chiaramente il dialogo con l’interlocutore, anzi presumibilmente interlocutrice, condannando il fedifrago, intervallando le parole con dei singhiozzi e talvolta dei silenzi a cui seguivano affermazioni di condanna seguite da un sbuffi alternati a… “tirar su col naso”. La rumena intanto prenota la fermata. Credo sia stata lei perché dopo il trillo del campanello si è messa alla porta centrale pronta per scendere. Arrivo alla pensilina di Piazzale Libertà, mi fermo e mentre la porta si sta aprendo si alza pure la boliviana. Le due scendono e io mi chiedo chi sia stata effettivamente a prenotare la chiamata. Bah, ma in fondo cosa mi importa: io ho tra le mani una storia strappalacrime che già mi stringe il cuore e la mia memoria, in maniera del tutto inconsapevole, mi riporta indietro negli anni quando, stupidamente, ho dato buca a una tipa che mi piaceva un sacco per farmi un giro in moto con un amico. Cazzarola dico io, d’altronde l’avevo comperata da poco quella cavolo di moto, il mio amico mi aveva chiesto un giro e sebbene gli avessi detto del mio appuntamento lui insistette. Cosa dovevo fare? Io amo la moto. E poi lui era lì mentre lei… lei no, era là, a casa sua che mi stava aspettando tutta elettrizzata per andare in piscina. Ad un tratto, come per magia, mi sento io lo stronzo che ha spezzato il cuore a quella ragazza sul pullman immaginando sia Alessandra, quella dolce ragazza che mi aspettò per ore invano davanti al cancellino della sua abitazione, quella stessa tenera fanciulla che la sera, al mio ritorno dal mega tour del lago d’Iseo, in lacrime mi urlò di non farmi più vedere nonostante avessi tentato di imbarcarla di cazzate, adducendo a fantasmagoriche scuse per farmi perdonare. Ricordo chiaramente il dolore che vidi nei suoi occhi rendendomi conto solo allora della stronzata colossale che avevo combinato. Ma oramai era troppo tardi. Ale mi piaceva un sacco: lei aveva preso il bamboccione che ero, quel “tetolotto” (licenza poetica) che fino al giorno prima giocava ancora con le macchinine trasformandolo in un ragazzo di sedici anni, insegnandomi persino a baciare senza sbavare come fossi un labrador. D’improvviso il campanello mi riporta alla realtà. Sono le 14:00 in punto. Siamo quasi arrivati all’ospedale ma lei, la tipa sul pullman, ha prenotato la fermata precedente. Si alza ed ora la vedo mentre si asciuga gli occhi dalle lacrime. È ancora al telefono. “Non voglio rivederlo mai più” dice all’amica e riprende a singhiozzare. Apro la porta, lei scende e con calma richiudo ma non riparto subito. La ragazza percorre il marciapiede poi si volta e mi guarda per un istante: non ricordo se fosse carina o meno, non ricordo il colore dei capelli, non ricordo il volto, il vestiario, niente. Ricordo solo quegli occhi gonfi di un dolore già visto anni fa, un dolore che giurai di non provocare mai più.

Marcus Joseph Bax