Ci provo, anche se non è che io mi senta il più adatto a scriverne, perché ho questo terrore della solitudine fin da quando sono bambino, che mi ha portato a dormire prima con mia sorella, poi con mia mamma, quindi, quando le due donne della prima parte della mia vita mi hanno cacciato dai rispettivi letti, con la mia fidanzata. Ho una paura fottuta di restare da solo, che è stato anche un bene, che mi sono innamorato del pallone, non tanto per il gioco, dico per i cross o per i dribbling, ma perché era stare tutti insieme, e ancora adesso, con le ginocchia mezze rotte, vado avanti a farlo due volte la settimana al campo di Orio al Serio. E poi ho capito che avrei fatto sempre e per sempre il giornalista la prima volta che sono capitato nel casino di una redazione. E pure la mia passione per la musica sta in quello, avere gente intorno, che cantare, anche nel peggiore dei casi, lo si fa almeno con un chitarrista, un bassista e un batterista, in quattro, che è già un bel gruppetto.
Premessa finita, ma doverosa, per spiegarvi che se esagero, parlando di una guerra, è perché in questi 43 anni sarò stato solingo, dico con me stesso e nessun’altro, per una dozzina di ore in tutto, più o meno per lo 0,001 per cento della mia vita.
E in questo mio diario dall’emergenza, nella provincia più contagiata in Italia, non voglio mancare di rispetto ai tantissimi che stanno soffrendo, a cui sono vicino, legato da questa cosa bellissima che è un’occasione nella sfiga, l’appartenenza, sentirsi insomma un tutt’uno con un popolo, il mio, bergamasco, lecchese, valtellinese, bresciano, milanese, lombardo.
Ed è proprio questo di cui mi sono accorto ieri, di quanto la realtà sia improvvisamente cambiata, per via dell’immenso senso di responsabilità della mia gente. Frastornato da ore e ore passate in redazione, a leggere centinaia di racconti di persone che parlavano di mille e più aperitivi ancora in corso, organizzati da gente che se ne fotte dei rischi di questa malattia e del pericolo per i propri vecchi, ho lasciato la macchina in ufficio, la nostra sede che sta in Piazzale San Paolo, e sono partito a piedi verso il mio appartamento, dall’altra parte della mia città, Bergamo, in Borgo Santa Caterina.
Erano più o meno le dieci e mezzo di sera, mi aspettavo di incontrare una bella fetta di popolazione irresponsabile, impegnata nel contagiarsi a vicenda. Invece non c’era nessuno, tutto ero chiuso, ogni bergamasco era a casa. All’altezza del teatro Donizetti ho incontrato un vigile urbano, siamo stati a dieci metri di distanza, mi è venuto da gridargli due parole, “come va?”, lui non mi ha sentito, io non sono stato lì a insistere che ho visto che era preso a fare le sue cose. Poco prima del cinema Capitol c’era una coppia, più o meno della mia età, che stava portando in giro il cane, una bella bestia di colore giallo, entrambi avevano la mascherina, quindi in via Pignolo ecco un ragazzo, un quindicenne solo soletto. Stava al telefono, penso con la sua ragazza, tanto parlava sottovoce e con gli occhi a cuore.
Ora sarà anche come quello che dicono tanti, gli improvvisati virologi che in questo momento ci danno lezioni su facebook, i giornalisti laureati con i loro reportage che fotografano un Paese allo sbando dove tutti fanno festa, ma non è quello che succede qui, dico nella provincia di Bergamo.
La gente sta dimostrando un senso di responsabilità straordinario, appena i nostri politici hanno smesso di confonderci e hanno iniziato a spiegarci bene bene che è un casino soprattutto per i nostri nonni, ognuno si è subito allineato, seguendo i consigli dei medici, restando chiusi in casa, senza fiatare, nonostante siamo una popolazione che ama far festa, probabilmente quella che nel mondo ha più bisogno di incontrarsi finito di lavorare, davanti a un paio di Spritz o a una Tennets, per far due balle.
La prima puntata di questo mio diario finisce qui, con le sagge parole di mia sorella Chiara (“ok, ok, è giusto isolarsi se serve a salvare delle vite, ma che senso ha continuare ad andare a lavorare? In certe fabbriche la gente sta per forza uno attaccato all’altro. Chiudano pure tutte le aziende”), e un pensiero ai nostri vecchi. Se non possiamo andare a trovarli, chiamiamoli almeno due volte al giorno, perché chi è solo, adesso, è ancora più solo.   

Matteo Bonfanti