Premetto che pur avendo passato l’intero sabato a leggere virologi e medici, non ho ancora le idee chiare su a che punto siamo arrivati nella battaglia al coronavirus. E aggiungo che i dati della Regione Lombardia, come sempre da quando è iniziata questa sfiga, non aiutano, perché non sono mai chiari, raramente spiegati fino in fondo a noi cittadini. Comunque diversi dottori in gamba, che stimo, sostengono che il covid abbia perso la sua drammatica pericolosità, un po’ perché sembra che in questo momento abbia una minore carica virale, tanto perché è diventata una malattia che stiamo imparando a prendere in tempo, prima che diventi letale. A riprova le cifre che arrivano dalla città di Bergamo e dal resto d’Italia, che raccontano di un numero di decessi sostanzialmente in linea con quello dell’anno scorso. E poi gli ospedali, tornati, proprio in queste ultime due settimane, a una totale normalità.
Toccando ferro, e con tutte le dovute cautele, perché è presto per cantare vittoria, resta l’impressione che l’emergenza sia ormai alle nostre spalle. Domani riapre quasi tutto, parrucchieri, bar e ristoranti. Dopo oltre due mesi passati in casa, mia mamma verrà a trovarmi a Bergamo perché ci si può spostare da un comune all’altro senza più bisogno di un valido motivo. L’ormai famosa autocertificazione, ne ho in macchina ventisette copie, non servirà più. Questa mattina sono andato a fare due passi a Monterosso e ho incontrato Michele e Anna Chiara, due genitori super, erano in bicicletta con le loro bambine, andavano verso Albino. Sarebbero rimasti a pedalare nelle stradine della Valle Seriana per l’intera giornata, senza l’angoscia di sentirsi in pericolo o quell’altra, di pensare che facendosi un giro mettessero a rischio qualcuno.  
Ora io scrivo principalmente per ascoltare le opinioni di chi mi legge. E ho la fortuna che i lettori del mio giornale sono persone molto in gamba, che all’autostrada dell’insulto scelgono spesso il sentiero del ragionamento, il confronto, anche duro se non sono d’accordo con me, ma mai offensivo, il più delle volte costruttivo.
E quello che penso, chiedendo appunto il vostro parere, è se non sia venuta l’ora di pensare a un ritorno in campo, il mio e quello dei miei amici, amatori del martedì e del giovedì, così come quello dei protagonisti del nostro calcio provinciale. Ovviamente non subito, perché la prudenza deve rimanere la parola che ci accompagna in questo viaggio verso il ritorno alla normalità, ma magari tra qualche settimana, se il trend resta questo e, se l’ipotesi che il covid non sia più una malattia mortale, troverà sempre più riscontri.
In queste settimane abbiamo sentito tantissimi ragazzi, i nostri giocatori, poi parecchi mister, ds e presidenti. Tra i tanti pareri raccolti, quelli di chi al calcio non ci pensa neppure lontanamente come quelli opposti, di chi ha un’immensa voglia di tornare a giocare, mi sento vicino alle parole di Giorgio Robecchi, direttore sportivo della Gandinese, la squadra di Gandino, uno dei paesi martiri di questa storica e immane tragedia. Il suo pensiero, molto semplice, “è che far ripartire il pallone aiuterebbe a voltare pagina e a farci ritrovare un po’ della serenità persa tra lutti e continue sirene delle ambulanze. Proprio per questo bisogna farlo il prima possibile, appena si potrà”.
Ovviamente non c’è una risposta, ma solo delle opinioni. Il presidente Baretti, numero uno della Figc lombarda, ipotizza una ripresa dei campionati a gennaio o a febbraio. Non è troppo in questo momento in cui lo scenario sembra cambiato? Non possiamo invece immaginare un’estate a giocare, magari di sera, per completare l’annata 2019-2020, dimenticando per un paio di ore alla settimana questa terribile cosa che ci è capitata tra capo e collo?
E’ possibile? Probabilmente solo a patto che la Regione Lombardia faccia la sua parte, investendo sui tamponi, fornendoli all’intera popolazione, in questo caso a chi deve scendere in campo, e dando i risultati nel più breve tempo possibile. Evitando le polemiche delle scorse settimane con Gallera e Fontana, l’appello è soprattutto a loro.

Matteo Bonfanti