Mi incazzo un giorno sì e l’altro pure con mia mamma, Valeria, persona molto intelligente, colta, professoressa di italiano e di storia, ora in pensione, amatissima dai suoi alunni, perché dal cuore d’oro. Litighiamo, al telefono, perché non ci vediamo da oltre un mese e pure quello è un motivo, perché noi due siamo indissolubili da sempre e adesso ci manchiamo da matti. Siamo in disaccordo sul ruolo che deve tenere chi come me fa il giornalista in questo tragico momento storico nella vita di tutti noi, che siamo il nostro Paese, il più bello al mondo, il più contradditorio, adesso il più in difficoltà. Lei dice: “Non è il momento di fare polemica, quelle verranno dopo, guarda il prezioso lavoro dei tuoi colleghi a Bergamo, invitano sempre a stare uniti, a remare dalla stessa parte…”.

E mi rimprovera per i nostri articoli, indagini che vanno alla ricerca dei colpevoli: i politici che per salvare noi e l’Italia sarebbe bastato istituire nella provincia di Bergamo una zona rossa quando ormai tutti sapevano, ed era un mese fa, e noi già lo scrivevamo. Poi gli industriali, ovviamente non tutti, che con i loro rappresentanti si sono opposti perché avevano scadenze irrinunciabili, le famose commesse, con relativi spot tranquillizzanti inviati in quei giorni ai partner all’estero. Bisticciamo per ore perché abbiamo due visioni diametralmente opposte riguardo ai nostri amministratori, e, quindi, abbiamo un’idea diversa di quale sia il percorso necessario e sufficiente per risolvere al più presto possibile questa sfiga che ci è capitata tra capo e collo. Lei, che è cattolica e che ha sempre lavorato nel pubblico, dice: “I nostri rappresentanti, Gori, Gallera, Fontana e Conte, non sapevano, se hanno sbagliato è perché si sono trovati dentro a uno tsunami. Ora stanno facendo il loro meglio. Sostienili”.

Io, che sono marxista e i miei colleghi (che sono marziani…) e che abbiamo sempre lavorato per giornali lontani dai potenti, le rispondiamo citando la Costituzione e gli stipendi a tre zeri che i quattro prendono, soldi nostri, che ricevono anche grazie a noi, alle nostre incredibili trattenute in busta paga.

Io penso che il denaro che ti do sia per farmi stare bene bene, per tutelare i miei diritti (tra cui la salute, ma pure la libertà) e i miei doveri (tra cui il mio lavoro). Se tu fallisci, e non so voi ma io sto soffrendo come un cane bastonato tra lutti e isolamento, tu che sei al comando, te ne vai, perché io ti pago e proprio per questo posso provare qualcun altro.  Le dico: “Ne usciremo quando loro si faranno da parte. Dimettendosi. Al loro posto servono persone che sanno, i medici, ad esempio, che non mi dicono balle, che sento quotidianamente e che hanno una visione diametralmente opposta a loro, l’idea che non serva la cessazione dei diritti e dei doveri, anzi che sia un’ulteriore dramma, questa volta psicologico (e tra Venezia, Monza e Fondi sono arrivate le prime tragedie), ma servano investimenti in strutture, risorse per guarire chi ne ha bisogno. Gli spot elettorali (strapagati sulle loro pagine facebook coi nostri soldi) lasciamoli a loro. Il coronavirus si batte conoscendolo nel profondo, si vince con la competenza, con numeri certi, coi tamponi, le mascherine, l’ossigeno per tutti, con il tracciamento dei contatti, con le strutture requisite da destinare ai malati con sintomi lievi in modo che non contagino tutta la famiglia. Non si vince con le parole degli avvocati al governo, il presidente regionale e quello nazionale, un penalista e un civilista, che decidono cosa debba fare il comparto medico del Papa Giovanni. Lasciamo che siano i competenti a trovare il modo per condurci fuori di qua”.

Detto questo, al netto della conferenza stampa di Giulio Gallera, probabilmente rivolta a noi, i primi  a mettere nero su bianco in rete il grido di allarme dei medici del Papa Giovanni (nove dottori, ripeto, nove), penso che il coronavirus, che qui e ora, soprattutto a Bergamo, abbia una carica di drammaticità senza eguali nella nostra storia, cambierà ogni nostra sovrastruttura.

La crisi è sanitaria, ma pure della politica, dove, mai come ora, ci siamo accorti che, se lasciata all’improvvisazione e all’incompetenza, porta a un immane sacrificio di vite umane, a una strage di Stato. La tragedia è dei nostri capitani d’azienda, con le loro pressioni su deputati e senatori. Non hanno sostenuto la serrata per due settimane e adesso per ripartire ci vorranno mesi e mesi. Il dramma è dei giornalisti, una categoria che per la gran parte racconta favole, sempre e per sempre striscianti coi potenti, i famosi cani da riporto dei loro padroni, mentre dovremmo essere quelli da guardia dei cittadini, uccidendo per due soldi di pubblicità quel poco di credibilità che ci era rimasta, ammazzando l’edicola. Poi la coppia, moglie e marito, ora che c’è il record delle violenze all’interno di casa, ma che nessuna donna ha il coraggio e la forza di denunciare.

Servono tanti soldi alla sanità, subito. Servono cure, certe, per chi è malato, oltre a numeri veritieri. Servono psicologi. Serve una rete, con tutti che si danno una mano. Serve vicinanza. Serve farsi ogni giorno una camminata in natura, ovviamente con tutte le cautele del caso, che non sono quelle che i nostri governanti ci impongono. Senza queste cose, le vittime continueranno ad aumentare. Non abbiamo bisogno della cessazione dei diritti. Siamo in un’emergenza sanitaria, non in guerra. E anche le parole hanno un peso. Gori, Gallera, Fontana e Conte, parlatene con chi ne sa. Vi do io i numeri. 

A mia mamma, Valeria, classe 1951, a cui do un immenso abbraccio perché sta soffrendo come tutti noi. A quelli della sua età, a un mondo ormai finito. Spetta a noi il compito di inventarne un altro. Senza questa gente, che ci dovrebbe rappresentare e tutelare e invece continua a darci la colpa. Per nascondere le proprie.

Matteo Bonfanti