Ho conosciuto artisticamente Raffaella Carrà solo quindici anni fa. La musica l’ho imparata da bimbetto grazie alle musicassette che metteva su mio babbo, Marco, per farci addormentare quando io e mia sorella Chiara andavamo a dormire da lui. Mio padre è innamorato dei cantautori, i più famosi, Dalla, De André, Guccini e De Gregori, e quelli che hanno fatto meno successo, come Ivan Della Mea, Mimmo Locasciulli, Luigi Grechi e Nino Buonocore, quattro nostri idoli assoluti, sempre presenti nelle sue compilation. Mia mamma, invece, aveva un solo disco, ogni volta sul piatto verso le nove di sera, Ricky Gianco che cantava “siamo tutti nella merda” e che ci faceva ballare per ore sul lettone.
Nella play list Raffaella non c’era. E non c’è stata nemmeno quando sono diventato ragazzo e ho iniziato a suonare, all’inizio innamorato perso di un movimento di forte rottura come il grunge di inizio anni Novanta, nato sull’onda del successo dei Nirvana, poi a scrivere testi e musiche recuperando le mie tradizioni, sul modello di Vinicio Capossela e Davide Van De Sfroos.
Fino a Raffaella per me la musica è stata una cosa seria, autorevole, quasi autoritaria, con la voce grossa, frasi ruvide tra i soliti accordi, brani suonati per cambiare il mondo.
Poi nel 2005 sono andato ad abitare in via Santa Caterina, proprio sopra il Divina, un posto magico, l’incontro tra la migliore cultura etero, curiosa e senza pregiudizi, e quella divertentissima, gioiosa e a tratti folle, del giro gay, lesbo e trans bergamasco. Ed è stato lì, nelle mie sere di festa appena sotto casa, che ho incontrato Raffaella, un mito. Con “Tuca Tuca” e “Tanti Auguri” passate dai due Divini, Fulvio e Lory, almeno una ventina di volte a notte, ho conosciuto la Carrà, l’icona mondiale della libertà sessuale, oltre che dell’allegria.
Dice Guccini, che amo, “però non ho mai detto che a canzoni che fan rivoluzioni, si possa far poesia”. Raffaella è riuscita a fare entrambe le cose, a cambiare l’Italia, regalandole un pezzetto di arcobaleno nella bandiera bianca, rossa e verde, rimanendo sempre leggerissima, appunto com’è la poesia quando finisce in musica. E mai come ora abbiamo bisogno delle sue canzoni, perché “non c’è odio, non c’è guerra, quando a letto l’amore c’è”. La Carrà non c’è più, ma resta il suo meraviglioso cuore ogni volta che andiamo a ballare sentendoci tutti liberi e uguali, sognatori e un po’ matti.
Matteo Bonfanti