Sto lavorando a un libro non mio, diciotto racconti da altrettanti posti del mondo raccolti durante l’aprile del 2020, il mese del Covid, quello che sembrava averci cambiato nel profondo. Le storie sono di allora, del periodo del lockdown, momento identico a Milano e a Bergamo, a Londra e in Thailandia, in Nigeria e in Brasile, a Cracovia, a Mosca e a Medellin.
C’era, ed è una cosa bellissima, che ci sentivamo tutti uguali, fighi e cessoni, ricchi e poveri, buoni e cattivi, giovani e vecchi, onesti, assassini ed evasori, sfruttati e sfruttatori, chi lavora e chi è disoccupato, bianchi, gialli, neri e marroni, machi e gay, lesbo e trans, calciatori, rugbisti, cestisti, pallavolisti e amanti delle sere sul divano.
Per la prima volta rinchiusi, nello stesso modo, io e Ibra, io e Lapo, io e Fedez, io e la Ferragni, io e Renzies, io e Salvini, identici, nella strizza generale che ci morisse la mamma o il socio al Papa Giovanni o all’ospedale di Milano. E c’era venuta la bella idea che l’umanità fosse unica, attaccata, l’insieme degli individui che stanno insieme, insomma l’uno per l’altro, il tutti o nessuno. C’eravamo convinti di una cosa buona e giusta, che la vita di un milionario o di una modellona lungona e tettona valesse come quella di un clochard o di una vecchina centenaria, tanto quanto, moltissimissimo. Ed erano scomparsi all’improvviso dai social quelli che pensavano agli ariani o a prima gli italiani. Persino la bestia si era calmata, che forse all’epoca aveva smesso di prendere quelle droghe pesanti ed eccitanti che adesso si è scoperto che spaccia anche in giro nonostante sia l’importante dirigente di un grande partito.
Sentirsi tutti uguali, un pensiero figo, ma figo fighissimo, due secoli di storia e i motivi di due guerre grandi e grosse risolti in sole quattro settimane.
Un anno e mezzo dopo questa cosa è finita che più finita non si può. E’ arrivato il vaccino e siamo tornati normali, di nuovo divisi, i fighi e i cessoni, i buoni e i cattivi, i pro vax e i no vax, i sommersi e i salvati per via del green pass, i giovani e i vecchi, i ricchi e i poveri cristi, gli onesti, gli assassini e gli evasori, gli sfruttati e gli sfruttatori, chi lavora e chi è disoccupato, i bianchi, i gialli, i neri e i marroni, i machi e i gay, le lesbiche e i trans, i calciatori, i rugbisti, i cestisti, i pallavolisti e gli amanti delle sere sul divano.
Sabato pomeriggio, finito di correggere il sedicesimo capitolo del libro sull’aprile del 2020, sentivo quell’attimo di malinconia di quel periodo tragico e zeppo di speranza in ogni appartamento. E allora sono andato da Marco, il mio parrucchiere preferito, cinese strabravo e chiacchierone, che mi tira sempre su. Mi sono fatto mezzo biondo, piastrato, perfettino, un ottimo lavoro che sembro un cantante gay di inizio anni Novanta, ma gliel’ho menata lo stesso, chiedendogli lo sconto, senza pietà, solo perché lui non è un lumbard, ma è un ragazzotto di origine orientale.
E mi sono accorto che anche io sono tornato quello di prima, l’opposto dell’aprile 2020 in cui ero il Vestaglietta, rosso rosso e buono buono, tipo Madre Teresa di Calcutta, capace che al mio barbiere avrei dato l’intero mio stipendio per uno shampoo rinforzante e due grattatine in testa di quelle giuste. E stasera vado a giocare per tirare una bella stecca sul ginocchio del Gippo, che è dell’Atalanta mentre io tengo al Milan, che ho bisogno di tornare totalmente lo stronzo che ero prima del Covid.
Matteo Bonfanti