L’anno scorso come oggi ero a San Siro a vedere l’Atalanta nella serata calcistica più bella della mia vita. Ero strafelice, che sul piazzale del Meazza avevo incontrato per caso i miei amici bergamaschi più cari, il Gigi, Bruno, la Giuli, Flavio e Gippo. Così, per caso, mi ero anche bevuto una birra con bomber Tiribocchi, che a me è sempre piaciuto da matti. Era la festa di un popolo, ma pure la mia, che per la prima volta avevo avuto quell’impressione, di essere famosino, un sacco amato dalla mia nuova gente, quella bergamasca. Poi c’era stata la partita, con una Dea travolgente, trascinata da cinquantamila cuori che battevano all’unisono: Hateboer, Ilicic, Freuler, ancora Hateboer, una valanga, qualcosa di unico, che si tatua nel cuore, che resta sempre e per sempre.
Poi è arrivato il covid. E’ cambiato il calcio, triste, solitario y final senza i suoi tifosi, non è cambiata l’Atalanta, ogni volta con quel piglio, con quell’immensa voglia di mettercela tutta, di morirne per l’idea, di asfaltare l’avversario restando immacolata, con quella meravigliosa anima, sudore, sangue e cuore, sudore, cuore e sangue.
Parlo di me. Non so voi, ma io mi sento totalmente diverso da allora perché il lockdown e il mio libro mi hanno trasformato. Paradossalmente è stato l’anno in cui ho conosciuto più persone, portando il Vestaglietta in ogni casa, nell’idea che avesse lo stesso immenso valore di una pizza quattro formaggi. Facevano il bonifico e partivo, mi mandavano un messaggio e partivo, così settecento volte, un viaggio fantastico. Ho conosciuto milionari, capitani d’azienda, operai, ex carcerati, pensionati, uomini normali, donne meravigliose, mamme fantastiche, insomma un sacco di gente di cuore, tutti nell’idea di dare una mano al Bergamo & Sport, il giornale del calcio, di cui sono il direttore, restato improvvisamente e senza aspettarselo senza il suo pallone, quello che va dall’Eccellenza alla Terza categoria.
Traccio il bilancio di quest’anno e il mio bicchiere è mezzo pieno, che un paio di settimane fa una signora bionda e molto gentile mi ha riconosciuto al supermercato, “Sei il Vestaglietta, ma senza la vestaglietta… Cosa succede, Matteo?”, “Niente di che, la mitica vestaglietta in acrilico cinese altamente infiammabile è solo da lavare”. E poi sono anche all’inizio di un viaggio immenso, l’inno del calcio bergamasco, We’re the fubal, sulle note di We’re the world, che farò cantare a quattrocento persone del calcio orobico, tutte quelle che amo, presidenti e capitani vestiti a festa, con la tuta o la divisa, soprattutto per vederli, che mi mancano da morire, ma anche per farne un cd, venderlo, più o meno come il Vestaglietta, per dare ogni euro che ricaviamo a chi sta soffrendo, io vorrei alla famiglia di Claudio, morto a Brumano, sul mio Resegone. Che quei soldi aiutino sua moglie, Ivana, e i suoi popini, Martina e Pietro, sei e tre anni, a ripartire. Ne hanno bisogno loro, più di me, ma di ripartire ne abbiamo bisogno tutti, perché questo coronavirus è stato un’esperienza. Come qualsiasi cosa che si vive con lati belli e brutti, ma ora ha davvero rotto i coglioni.
Matteo Bonfanti