E’ strano essere padre, per come l’ho vissuta fino a qui lo immagino sempre come una scorciatoia luccicante e senza inganni verso quel traguardo così facile e impossibile che è la felicità. Ho preso quel sentierino un sacco di anni fa, chiudendo gli occhi mentre facevo l’amore con una donna che sentiva di essere pronta a diventare madre. Ricordo solo che eravamo in un posto di montagna e che faceva freddo freddo, che stavamo sotto ad almeno dieci coperte e che nel cielo c’erano sia la luna che le stelle che Caino che faceva le frittelle. Ero ignaro di cosa avrei vissuto eppure sapevo benissimo come sarebbe stato, insomma avevo già sulla pelle i miei mattini, dall’inizio alla fine e persino in mezzo, dove sono ora. Ho cambiato pannolini e ho suonato con la mia chitarra le canzoni degli Aristogatti, ho letto cento e più poesie di Gianni Rodari e tutti i libri di Italo Calvino, ho fatto mille e passa chilometri per portarli dalla loro bella spiegandogli che la sola cosa che per me è importante sono le coccole lungo i mirabili confini della notte. Mi sono messo a ridere spesso, persino le tre volte che stavo morendo dentro, mi sono messo a piangere almeno in cinquantamila occasioni, a ogni abbraccio e a ogni bacio sul collo o sulla bocca, commosso, ringraziando Dio di averli avuti, Vini e Ze, Zeno e Vinicio, Vincent e Neno, i miei due angeli custodi, non so in che ordine, del resto un padre e una madre un preferito non ce l’hanno, altrimenti non sono genitori. Racconto me stesso, oggi, in questo lunghissimo giorno dove i miei figli, Zeno, che era il festeggiato, e Vinicio, che è il suo migliore amico, non volevano che andassi mai via (e pure i loro fighissimi soci, come da foto). Siamo stati a Zero Gravity, a Stezzano, poi al Tijuana, quindi in giro a zonzo per la nostra città, Bigì. E, quando li ho lasciati, ho rivisto quella stradina. Io e loro, immensamente la loro mamma, Costanza, l’abbiamo arredata così tanto e così a lungo che è diventata un’autostrada. 
Matteo Bonfanti