Più Vinicione cresce, ora è arrivato ad avere i piedi più lunghi dei miei, più mi capita di pensare al giorno in cui sono andato via da casa. Non lo ricordo. E mi chiedo se ero ancora piccolo o ero già diventato grande, ma soprattutto non ho in mente che viso avesse scelto mia madre. Era giovane e bella come la vedo adesso oppure era vecchia come la sentivo quando ero ragazzo? Era magra o grassa? Era triste o felice?
Sabato sera a casa c’era il solito casino che io e i miei due figli tiriamo insieme da quando ci siamo conosciuti. C’era la loro gente, i due Aldeni, che sono grandi e grossi, due adolescenti giganti, un metro e ottantacinque, di quelli che pensi che i loro genitori li abbiano cresciuti con l’epo e la creatina, e Miranda, mia nipote-nipotona, che è tipo una pallavolista di Serie A, di quelle alte alte che fanno le schiacciate. E c’era anche la mia gente, Martina, travestita da Santa Lucia, con un sacco di regali tra le mani, Simone, che è il Forno, che a me piace da matti perché sa un sacco di cose sull’Atalanta, il Gigi, che è il mio fratello bello, Claudia, che è l’amore del Gigio, e Azzurra, che è la loro bellissima e dolcissima bambina al seguito.
La nostra casa è piccola, ottanta metri, la gente mormora. Così a un certo punto eravamo nel delirio, anche per via di una mia scelta raccapricciante riguardo al sottofondo musicale, una compilation col peggio possibile delle canzoni di Natale. A quel punto Vinicio non ce l’ha fatta più e si è giocato il jolly quotidiano per far partire la rissa tra fratelli, che hanno appena due anni di distanza e sono da sempre cane e gatto. Gli ha detto: “Tu, Zeno, devi lavarti, perché puzzi come una capra. Ma non di quelle pulite, che hanno un padrone che le cura. Sai di bestia selvatica, che sta in montagna”. Apriti cielo. Ze, che ha preso una dozzina di cose bellissime da sua mamma e due cose abbastanza pessime da me, il viaggio punkabbestia e una certa permalosità, si è incazzato come una biscia. E si è chiuso in bagno. Nel frattempo Gigi, Claudia e Azzurra se ne sono andati perché sono ligi alle regole e anche con una certa propensione al relax, gli altri, io, la mamma dei miei figli, che di nome fa Costanza, i due Aldeni, Miri, Forno e la Marti stavamo fuori dalla toilette a dire al giovane di uscire, anche perché a tre di noi scappava la pipì. Zeno non mollava, noi tutti ci sentivamo nel famoso cul de sac. A turno gli dicevamo che gli volevamo bene così com’era, anche se non si fa la doccia ogni settimana, ma non c’era storia.
Così Costanza mi ha chiamato in camera. Mi ha detto: “Devi portare via i due ragazzi alti alti. Non c’è spazio qui in casa. Tu sai chi sono… Prendi la macchina e portali a casa loro”. E io pensavo a “Indovina Chi”, il gioco di plastica blu, con le facce che parevano le figurine della Panini. E mi è venuto da giocare con lei, al volo, soprattutto per capire chi dovessi cacciare. “Costy, porto via chi ha il capello? Chi ha gli occhi azzurri? Sono biondi? E’ Bill?”. Ovviamente lei non mi ha manco risposto, così ho intuito fossero i due Aldeni. “Vi riaccompagno…”. E loro neanche per le balle, neppure minimamente. E alla fine si sono fermati a dormire.
La serata si è conclusa con Zeno che è uscito dal bagno per infilarsi sotto il letto per protesta. Vini l’ha menato un altro paio di volte. Poi i cinque adolescenti hanno visto un film, spero qualcosa di non troppo pop porno, ma hanno quell’età ormonauta e magari sono stati su ore e ore a distruggersi con you porn, uguali uguali a me quando avevo quattordici anni e il sabato sera andavo a casa dal Negro ad ammazzarmi di seghe grazie alle videocassette di suo babbo, che aveva il negozio e le affittava a pagamento.
Comunque, sempre sabato notte, a una certa, Zeno è venuto in sala dove dormicchiavo con in sottofondo il racconto del primo anno di Mourinho al Totthenam. Si è lamentato di suo fratello (“ma perché l’avete fatto?”) e poi mi ha detto: “Ma questa storia che vuoi portarci una volta la settimana dalla nonna Valeria a fare il corso di cucina per fare i tortellini, sinceramente penso sia una gran cazzata…”. E io, con l’occhio mezzo chiuso, gli ho domandato il perché. E lui mi ha detto: “Diventi bravo a cucinare solo una volta che sei diventato nonno. Andiamo dalla Vale, ma senza stare lì a fare la pasta e il ripieno. Piuttosto stiamo con lei a chiacchierare”.
Ecco, è questo. Non sono mai stato un bravo tipo, sono un maledetto, lo ero pure da ragazzo. Ma riempivo ogni stanza di parole nuove, identico a Vinicio e a Zeno, i principali coautori di ogni mio racconto. Ero il casino, il cazzo all’aria, i tormenti e le litigate, ma pure mille e passa colori. Per questo mi domando: ma mia mamma, quando sono andato, era triste o felice? Perché io non voglio che i miei figli, Vinicio e Zeno, due dolcissimi criminali, mi lascino mai. Morirei nel silenzio.
Matteo Bonfanti
Nella foto io da ragazzo, il giorno che me ne sono andato da casa. A Londra, nel 2000