di Matteo Bonfanti
Lungi da me menare il torrone a Fedez. Che non conosco e magari è pure un bravo tipo, simpatico, brillante e generoso. E’ finito in una rissa, può capitare. A riprova che anni fa è capitato anche a me che in famiglia sono soprannominato tranzollo. E che in tutta la mia esistenza mi sono picchiato tre volte, due da piccolo, una da ragazzo. Ovviamente le ho sempre prese. Ma non sono stati incontri memorabili, tipo quelli di Mike Tyson che una volta si è pappato l’orecchio di un avversario e che da bambino vedevo in televisione col mio babbino. Stavamo nel lettone perché a casa sua c’era la tv in camera. Mio cugino Nicola veniva a dormire con noi. Scoreggiavamo a turno e ridevamo. Diventavamo matti. Dovremmo farlo ancora, organizzare una serata amarcord, ma non so se la boxe la trasmettono più. Di sicuro mandano Fedez, i suoi video da gradasso tatuato fino al collo. Li vedo in redazione e non so perché mi ricordano un raduno di Harley Davidson a Lecco, sarà stato il 1994, era estate, ma potrei tranquillamente sbagliarmi. Sento “Magnifico” e mi vengono in testa quelle moto, sul lago, col sole. Grandi, potenti, rumorose, fastidiose. Insomma un dramma.
Fedez. Ora ne scrivo. Giuro. Mi concentro e un pensierino lo butto giù. Che ci vuole? Ieri era l’argomento del giorno, più importante di quella gente stramba che sta al governo, più del Papa, della Madonna, di Obama. Ne ha parlato persino Facci di Libero, uno famoso, un collega che solo un paio di decenni fa seguiva quella rivoluzione che è stata Tangentopoli. Nel 2015 il celebrato giornalista si occupa d’altro nonostante la corruzione dei nostri politici sia ai suoi massimi storici. Pur divinamente, adesso ci racconta di Fedez. Che io continuo a chiamare Tevez che, forse, va all’Atletico Madrid per far panchina. Per la Juventus è un bene, perché l’argentino ha già trentun’anni. E poi ha il problema che in Europa scompare, come contro il Barcellona. Alla Vecchia Signora è mancato lui. Ed è quello il gap che c’è con i blaugrana. Per colmarlo ad Allegri serve un attaccante fenomenale. Uno dei magnifici sette, in ordine d’importanza Leo Messi, Cristiano Ronaldo, Luis Suarez, Neymar da Silva Santos Junior, Karim Benzema, Robert Lewandoski, Diego Costa. Ibra no, anche se è il mio preferito. Lo svedese in Champions si emoziona, diventa un altro, normale. E la prende male, s’innervosisce, non tocca un pallone e poi si fa cacciare. Non sposta gli equilibri come invece fa in campionato. E va detto che forse Marotta il top player che manca l’ha già preso, Paulo Dybala. Mi piace da morire, è moderno, salta l’uomo, crea superiorità numerica, fa soprattutto segnare.
Io, mio babbo, mio cugino Nicola, le Harley Davidson, Filippo Facci, Tevez, la Juventus, Ibrahimovic, Dybala. Di Fedez ancora niente. Neppure all’orizzonte. Penso a Giulio Cagliani, che questa mattina mi ha svegliato presto. Avevo il telefono sul comodino, ha iniziato a suonare. Ho guardato l’ora, 09:17, indeciso. Mi tiro in piedi o faccio finta di essere morto? Ho risposto. E ho fatto bene. Non ero mai stato a chiacchierare fitto col mister del Palazzolo Telgate, ci eravamo sempre limitati ai canonici dieci minuti di cortesia. Forse esagero, ma credo che oggi siamo stati a parlare per due ore. Un po’ di tutto, mentre mi lavavo e bevevo il caffè. Siamo partiti da Inacio Joelson che da qualche giorno è un giocatore del Lecco. L’ho scritto lunedì sul sito, dicendo che l’attaccante brasiliano è cresciuto nell’Atalanta. Non è vero. L’ha fatto diventare grande Cagliani quando allenava le giovanili della Fiorente del Cavaliere Pezzoni. Verso le dieci e un quarto Cagliani è diventato Giulio, non il tecnico vincente del nostro pallone, ma un uomo dalla straordinaria sensibilità. E abbiamo iniziato a confidarci: “Sapessi Matteo che bimbo che era Inacio. Veniva agli allenamenti e non aveva neppure il cambio, neanche i soldi per comperarsi un gelato. E per noi è stato un figlio”. Pensiero dopo pensiero ci siamo messi a parlare delle persone povere, che ce ne sono un sacco anche qui a Bergamo e tutti e due ne conosciamo parecchie. E ci siamo detti che ogni uomo dovrebbe avere almeno da mangiare e invece non è così. Da noi ci sono i ricchi ricchissimi e chi non arriva alla fine del mese. E l’Italia è diventato un progetto fallimentare. E’ stata la crisi. Ha eliminato la possibilità di affidarsi al proprio talento, l’unica cosa in grado di sparigliare le carte, di far saltare il banco, la scala sociale. L’informazione è in crisi, i giornali non pagano, allora scrive solo chi non ha bisogno dello stipendio perché ha alle spalle una famiglia facoltosa. Se uno si mette a fare un libro, paga a sue spese sia la stampa che la distribuzione perché le case editrici sono perennemente in perdita. Nel calcio gioca titolare il ragazzino che ha il padre che ha due lire per fare lo sponsor, il poveraccio non fa manco gli allenamenti perché non ha gli euro della quota annuale. Uguale il meccanismo nella musica, con tante radio che chiedono un tot a passaggio direttamente all’artista. E lì ho pensato a Fedez. E agli illuminati: Enzo Biagi, Indro Montanelli, Erri De Luca, Massimo Carlotto, Alessandro Del Piero, Roberto Baggio e Fabrizio De Andrè. Nascessero oggi, magari da due operai, passerebbero inosservati.