Già l’avevo detto, lo dico anche oggi, in modo ancora più duro e fermo dopo i calci e i pugni a Turchi, un signore, il responsabile del vivaio del Brusaporto, e le botte tra Juventus e Inter. Prendo questa posizione da direttore del giornale sportivo della Bergamasca, uno dei pochi settimanali che sta in piedi bene, pagando tutti, senza debiti né padroni, anche perché ha la fortuna di essere al centro della provincia più importante in Italia dal punto di vista calcistico, per via dell’Atalanta, dell’AlbinoLeffe, del numero record dei club in Serie D, dello straordinario livello della nostra Eccellenza, della nostra Promozione e delle altre serie, Prima, Seconda e Terza, Over 40 compresa. Ne parlo al seguito di una cena con Nicola Radici, un amico, ora delegato della Lega Nazionale Dilettanti di Bergamo, e con Nado Bonaldi, qui da noi il mister dei mister, un uomo semplicemente eccezionale, forse il migliore del nostro intero movimento. Fermiamo il pallone. Prendiamoci un tempo per riflettere su cosa sia diventato, se è davvero quello che ci piace visto che ci intristisce così tanto e così a lungo. Ogni lunedì passo ore e ore al telefono con dirigenti che giustamente mi menano il torrone per fatti squallidi accaduti in questo paese o in quell’altro, ogni volta viaggi assurdi, di una violenza inaudita, ingiustificata e infinita. Io non so dare mai una risposta, e me ne scuso, ma perché sono figlio di un altro pallone. Giocavo e non si finiva in rissa. Giocavo e non c’erano insulti di alcun tipo, sicuramente mai legati al colore della pelle o alla provenienza geografica. Giocavo e andavamo tutti insieme a mangiarci una pizza, chi aveva vinto con chi aveva perso a parlare per l’intera serata delle fighe sugli spalti. In campo ce le davamo, per carità, del resto se uno sta andando in porta, la stecca gliela si tira per provare a fermarlo, ma finiva lì perché intanto ce la studiavamo per non farci male male, grazie al fallo plateale seguito dalle immancabili scuse alla vittima e all’arbitro, e poi perché le partite erano una parentesi tra la vita che vivevamo all’oratorio, dieci ore al giorno, altrettante sfide da vincere, l’ultima un attimo prima di andare dalla propria mamma, che gridava dal terrazzo perché aveva apparecchiato e pure sul 9-9 non c’erano cazzi, si doveva andare a mangiare. Credo che sia a livello giovanile che nei grandi al giorno d’oggi si giochi pochissimo, i due allenamenti e la partita, sette otto ore la settimana, e che si sia perso completamente il controllo. Troppa la pressione e la conseguente attesa persino tra gli stessi atleti. Poi ci sono i genitori, quelli della mia generazione, a volte un disastro, completamente fuori di testa a causa degli aperitivi nel giorno di festa, quello lontano dal lavoro in cui si può tutto, addirittura non essere sani, liberi di sfogare frustrazioni e sfighe personali gridando insulti e cazzate da una tribuna anonima, castrando i propri figli, che sempre si vergognano e che spesso fanno prestazioni tristi, piene di rabbia e prive di poesia. Occorre fermarsi e riscrivere le regole, cacciare chi non fa parte del nostro splendido teatro, chiedergli gentilmente di andare a passare il tempo libero in un altro posto. C’è in ballo il calcio, lo sport più bello al mondo, quello di Diego Armando Maradona, un fallo, uno solo in carriera, e per questo rimasto storico, l’abbraccio con Baresi e lo scambio della maglia con Maldini dopo la vittoria rossonera al San Paolo, decisiva per uno scudetto, il santo di un dio chiamato pallone, la normalità di un popolo che sta accanto stretto stretto al di là dei colori, noi, la gente del calcio, quella goduria di esserne parte, con migliaia e passa di sorrisi, di racconti e di strette di mano, del resto il fubal è un gioco, a tutti i livelli una gioia, come da foto, io, il secondo scemo partendo da sinistra in una sfida assurda finita alle quattro di notte a tavola in un meraviglioso ristorantino di Stezzano
Matteo Bonfanti