Pure se le nostre cetre chi ci comanda dice che devono restare appese alle fronde dei salici, io con te non riesco, perché tu sei un poeta, e io, a volte, quasi, mi conosci, ci provo da sempre. Così ti scrivo, cercando di stare lontano da questa brutta malattia, che qui da noi è vicina vicina, da un po’, papà, persino tra i miei. Da voi, al di là dall’Adda, è diverso, qui da noi, a Bergamo, è addosso, le sirene intorno, gli amici che muoiono, la polizia per strada. E si ammalano persone care che avrei voluto raccontassi tu, il centravanti della squadra dove gioco, molto più bravo di me, che sono da sempre il tuo unico campione del pallone. E tutti siamo in ansia, che prima in questa nostra provincia della morte sapevamo poco e male, giusto di striscio, e vorrei cambiare argomento, trovare un tempo libero, quantomeno per dirti grazie, babbino mio bello, di questo nostro gioco allo specchio, tu che scrivi così bene e che ancora fai il maestro elementare (pure in pensione…), io che sto bene bene solo in mezzo ai bambini, ma che scrivo, spesso male, per lavoro. Ma ora non è manco importante, e comunque sai che sono testardo, mi sono messo e mi piace da morire, un giorno imparerò.
Tutto questo per dirti che è il nostro giorno, ma la festa non è nostra perché qui da me è un tempo dove le parole, le sole che sono restate sempre tra noi, si sono fermate, adesso io non le ho più. Tra noi parlano le immagini, i mezzi militari, le bare ammassate, gli intubati uno in fila all’altro nei milioni di post dal titolo “state a casa”. Le pubblicano persone che conosco, ma pure i miei maestri, ma babbo io non li seguo, non è e non sarà il mio, me lo hai insegnato tu: c’è un limite al dolore, e non è manco essere giornalisti, ma è questo viaggio bellissimo che mi hai dato, quello di essere e di restare umani, ogni volta, comunque, “ci sono confini, giovane compagno, non li dobbiamo superare mai”.
Tornerà la primavera, è l’ultima tua poesia, tornerà un’altra estate, è l’ultima canzone che ho suonato, ieri sera ai miei ragazzi, Vinicio e Zeno, i tuoi nipoti. E torneremo a mangiare gli agoni e gli strozzapreti sul lago, appena fuori casa tua, il lunedì sera, che questa malattia è una trave negli occhi pure per noi due, che tu non sei mai stato così bello e saggio, e il virus ci ha interrotto nel nostro momento migliore. Ho voglia di conoscerti, Marco, il terzo mio papà, il primo incasinato e irresistibile di quando ero bambino, il secondo impegnato per un mondo migliore, con io che ero da poco diventato ragazzo, l’ultimo da favola, pieno zeppo di consigli, ora che io ho la stessa età del protagonista di Paris Texas, tu, invece, che sembri l’ultimo Nick Nolte.
Solo questo, non è tanto, non è poco, ma ne avevo voglia. Buona festa del papà, babbino, Marcobonfanti, come sei sul mio cellulare, che tu di quel cognome ne vai così fiero, io adesso mi alzo e manco mi ricordo come mi chiamo, sono solo Matty, come dici tu. E grazie, che se scrivo è per via di quella poesia trovata in un cassetto nel tuo appartamento a Mandello, da adolescente, c’erano tette, culi e pallone, meravigliosi e meravigliosamente, e un giorno magari riuscirò anche io. Manchi, a presto, ancora buona festa. Ti chiamo stasera, che mi dici che ne pensi. Un bacio.

Matteo Bonfanti

Nella foto mio babbo, un uomo bellissimo