di Valerij Lobanovskij
Vincere due volte la Scarpa D’Oro non è da tutti.
Soprattutto nell’epoca in cui il Trofeo viene assegnato dopo un complesso calcolo matematico che moltiplica i gol segnati durante la stagione per un coefficiente di difficoltà assegnato al campionato nel quale si sono segnati i gol: finita l’epoca della Scarpa D’Oro assegnata ai Pancev o ai Colak di turno – capaci di segnare valanghe di gol in campionati tutto sommato poco difficili (rispettivamente nel campionato jugoslavo e in quello turco, ma anche la meteora bresciana – 4 presenze e zero gol con le Rondinelle – Dorin Mateut in quello rumeno nel 1989, sponda Dinamo Bucarest), dal 1997 il massimo trofeo continentale per i centroavanti si dota di questo sistema di assegnazione.
E Mario Jardel De Almeida Ribeiro ne vince due, con due squadre diverse, inserito in un albo d’oro prestigioso, fatto dai vari Cristiano Ronaldo e dai Leo Messi.
Gol a raffica.
A valanga.
bg23fo1 Una media gol mostruosa, da fare stropicciare gli occhi agli appassionati di statistiche.
Gli esordi, da ragazzino, vedono vestire Mario Jardel una maglia particolare, quella biancorossonera del Ferroviario, squadra della sua città – Fortaleza – che non vanta un palmares ricco o partecipazioni a raffica al campionato brasiliano (disputa solitamente quello regionale, senza emergere né brillare), ma che ha una storia interessante alle spalle, essendo l’espressione diretta dei lavoratori delle ferrovie (nasce infatti nel 1933 come attività di svago autorganizzata dagli stessi operai) e può vantare su una torcida molto calda, impegnata socialmente e politicamente, in piena linea con le origini proletarie e protosocialiste del team.
Con i Ferrovieri non arriverà in prima squadra, infatti per fare il suo esordio nel calcio professionistico deve fare un bel po’ di chilometri ma, d’altronde, la sua sarà una carriera da giramondo: due stagioni a Rio de Janeiro, vestendo la maglia cruzmaltina del Vasco Da Gama, con il quale in verità segna e gioca poco (15 presenze e 3 gol in due stagioni), briciole, primi scampoli di grande calcio.
Altri chilometri per iniziare a segnare con regolarità: nel 95-96 si trasferisce ancora più a sud, a Porto Alegre, dove consacrerà la sua carriera vestendo la casacca del Gremio: durante la stagione, il ragazzone (1.88 m di altezza per un peso ballerino) del Nord Est con 13 presenze e 10 gol, una media niente male, condita dal titolo di capocannoniere nella Coppa Libertadores vinta in quell’anno, con 12 gol, aggiungendo il prestigio della massima competizione sudamericana alla vittoria nella Copa Sudamericana e al titolo nazionale. Agli ordini di Scolari una batteria di tutto rispetto: dietro i paraguaiani Arce e Riverola e a fianco di Jardel il “Diablo Loiro” Paulo Nunes, che contribuiscono a sovvertire tutti i pronostici e a portare nello stato di Rio Grande do Sul il campionato e la Libertadores, vinta ai danni dei colombiani dell’Atletico Nacional.
Qualche osservatore europeo ha messo gli occhi su Jardel, perfetto terminale offensivo, capace di giocare di sponda così come di puntare l’uomo e sfruttare la stazza per girarsi: i Dragoni del Porto sono i più lesti ad assicurarselo, battendo la concorrenza di diverse squadre e segnando un trend interessante per le squadre portoghesi (favoriti anche dalla propria legislazione sul tesseramento di giocatori extracomunitari), capaci di investire sui talenti dei campionati extra UE per poi rivenderli a peso d’oro in altri campionati comunitari più ricchi (un paio di nomi, freschi dalle cronache di mercato di quest’estate: Radamel Falcao e James Rodriguez).
E’ l’inizio della leggenda di uno dei calciatori più prolifici a livello europeo negli anni a cavallo fra i due millenni: Mario Jardel da Fortaleza non solo conferma quanto di buono si era intuito quando vestiva la maglia del Gremio ma addirittura strabilia tutti con pacchi di gol.
Ok, il campionato portoghese forse non è il più competitivo del mondo, sono tre i club che lottano per lo scudetto (Porto, Sporting Lisbona e le Aquile del Benfica, con episodici inserimenti come il Braga di qualche anno fa), ma ciò non toglie che la media reti di Jardel è quella di un mostro: 13 gol il primo anno (96-97) in biancoblu e poi rispettivamente 26, 36 (in 32 gare) e 38 (sempre in 32 match) per un totale di 130 segnature in 125 gol.
Si permette pure di segnare una doppietta a San Siro in Champions League mettendo a sedere Paolo Maldini in un Porto corsaro che vincerà 3 a 2 e segnerà l’inizio della fine della permanenza a Milano di Tabarez.
Una media di più di un gol a partita e la prima Scarpa D’Oro in bacheca, per poi fare altre migliaia di chilometri ed accasarsi sulle rive del Bosforo, sponda Galatasaray, pagato fior d miliardi.
In giallorosso non delude: timbra il cartellino 22 volte e segna una doppietta al Real Madrid nella finale di Supercoppa.
A Istanbul però non si trova così bene e nel 2001 ritorna in Portogallo, altri chilometri per vestire la maglia biancoverde dello Sporting Lisbona. Due stagioni, con la prima che lo vede assoluto protagonista: 42 gol in 30 partite, titolo di capocannoniere e seconda Scarpa D’Oro.
Mario Jardel è uno dei centroavanti più prolifici d’Europa, potrebbe essere il 9 dei top club, eppure qualcosa in lui non convince: iniziano a girare strane voci su alcuni vizietti, fa fatica a mantenere la forma (e la linea), la seconda stagione in riva al Tago sono solo 19 e 11 rispettivamente presenze e gol, nel frattempo viene escluso dalla lista per i mondiali 2002 e la moglie lo pianta in asso, facendolo piombare in uno stato di grave depressione che determinerà in negativo il prosieguo della sua carriera.
Nel 2003 le sterline del Bolton gli fanno fare altri chilometri ma ad Horwich arriva un Mario Jardel triste, spompato e sovrappeso e le nebbie della Greater Manchester non lo aiutano: scenderà sul terreno del Reebok Stadium solo sette volte in un anno e mezzo, più per necessità che per scelta, senza buttarla dentro.
A gennaio 2004 prova a dare una svolta, a rimettersi in gioco, a uscire dal tunnel dove è finito e prova – in prestito – l’avventura italiana. Lo ingaggia l’Ancona, entusiasta di rilanciare un campione appannato e sovrappeso: la presentazione di Jardel nelle Marche ha però del tragicomico.
Durante un Perugia – Ancona, forse emozionato e ancora confuso, prende una sciarpa e corricchia a salutare la curva agitando la manona.
Quella sbagliata, dove ci sono i tifosi avversari, che gli tirano di tutto e lo deridono finchè – impietositi – i dirigenti dell’Ancona vanno a recuperarlo e lo portano sotto la curva dei tifosi dorici.
L’esordio sul campo nel nostro campionato è ancora peggio: contro il Milan la sua prestazione è imbarazzante, il suo stato di forma ancora di più e prima Sonetti e poi Galeone provano a rimetterlo in riga ma con scarsissimi risultati, complice il nuovo allontanamento dell’ex moglie (con il quale si era riappacificato) che fa i bagagli e ritorna in Brasile con i figli, lasciando ancora una volta Mario da solo.
In Italia gioca poco e male, dopo solo 3 partite l’Ancona lo rispedisce Oltremanica.
Da lì, altri chilometri e nell’estate 2004 varca l’Oceano per accasarsi al Newell’s Old Boys ma Mario Jardel è ormai solo l’ombra di sé stesso, un gigante oversize che combatte con i demoni del suo cervello e in Argentina solo 3 presenze e nessun gol.
Chilometri, migliaia di chilometri, la vita di un centroavanti a fine carriera è con la valigia in mano e il suo crepuscolo calcistico lo porta a fare l’abbonamento sui voli intercontinentali: dopo l’esperienza argentina sarà nei Paesi Baschi, a Vitoria per vestire la maglia dell’Alaves nella serie B spagnola, poi a tornare in Brasile per 4 presenze nel Goias.
E poi Beira Mar (Portogallo), Cipro (Anthorsis), Australia (Newcastle Jets), segnando qualche golletto (è pur sempre stato uno dei migliori bomber del decennio) ma sempre più grasso, triste e stanco. La testa ogni tanto va in corto circuito e lui si aiuta come può, con la cocaina e decide allora di ritornare in Brasile: nel 2008 è al Criciuma mentre l’anno successivo riveste la maglia più amata, quella degli esordi.
Nove presenze con la maglia del Ferroviario, il ritorno a casa, a Fortaleza, che però lo vede solo di passaggio: altre migliaia di chilometri, poche presenze in due anni fra l’America e il Flamengo, non quello celebre di Rio De Janeiro ma quello ben più modesto di Teresina, stato di Piauì.
Ultimo guizzo di calcio europeo, una stagione tremenda al Cherno More in Bulgaria, mentre gli ultimi scampoli di calcio giocato li gioca in patria (al Rio Negro) e al servizio dei petrodollari arabi degli sceicchi dell’Al Taawon: il canto del cigno, 13 gol facili in 19 presenze per poi appendere le scarpette al chiodo.
Decisione sofferta, meditata nel tempo, pensiero ricorrente negli anni più oscuri.
Ora Mario Jardel non è più un calciatore professionista, non deve più combattere con la bilancia, la depressione (e la dipendenza da cocaina) è superata ma ha lasciato cicatrici in un carattere chiuso e schivo, malinconico.
Insieme a questo, il periodo oscuro ha lasciato il rimpianto in Jardel di non essere riuscito ad arrivare in cima: nessuna squadra di vertice, poche presenze in nazionale maggiore (nonostante la vittoria del mondiale U20 del 1993, insieme a Dida e alla meteora doriana Catè), la figuraccia di Ancona e una carriera sull’altalena in undici campionati diversi per un calciatore che sarebbe potuto essere quello che – oggi – chiameremmo “top player”.