di Matteo Bonfanti
La neve sui campi e l’occasione della mia prima domenica dell’anno senza calcio né redazione. Ho staccato tutto, computer, telefonino, cazzi e mazzi. Sono tornato a vedere com’è la vita quando non ci sono il Villa Valle, la Sirmet Telgate, il Pontisola, il Verdello, il Longuelo, l’Asperiam e la Virescit. Ho portato i miei due figli, il mio cane, mia mamma e il suo stupendo marito a camminare in Città Alta. La ciclabile di via Baioni, Piazza Vecchia, la cioccolata in tazza con la panna, poi qui, nel Borgo, a raccontarci fitti fitti quella meravigliosa avventura medioevale che sono le strade zeppe di sassi e di passato che hanno certi angoli di Bergamo. Da nessuna parte è così, mi sono sentito fortunato, il posto dove vivo è meraviglioso.
Ho saputo solo a cena di Giovanni, un mio giornalista, una persona bellissima, che mi ha sempre fatto un sacco ridere, ho scoperto se n’è andato per sempre, sono restato senza parole. D’improvviso ho perso la felicità e il suo contorno. Fino a ieri Giovanni Abalsamo era un pezzo importante del nostro settimanale, il Bergamo & Sport. Intanto per come scriveva, bene, chiaro, ma pure divertente, da leggere tutto d’un fiato, persino il peggio 0-0 mezzo concordato tra due squadre che più bolse non si può. Ci metteva l’anima, il suo spirito, la battuta, il colpo di classe, lo stesso che aveva in campo e che lo faceva luccicare. Giovanni giocava a pallone da dio, di quelli piccoletti, ambidestri, velocissimi, da play station, imprendibili per i mediani come me. Sul rettangolo di gioco l’ho incontrato un paio di volte, e davvero non ci ho capito nulla. Mi ha fatto, credo, una decina di tunnel, ma potrebbero tranquillamente essere stati anche il doppio. Mi scartava e sorrideva, con quella faccia lì, da bravissimo per caso.
Giovanni aveva quel modo, non so se avete presente, da ridere, stupendo per le capacità che Dio gli aveva dato, ma senza menarsela né farla pesare, insomma evitando in dribbling di prendersi sul serio. Così era a scrivere, quando gli dicevo che qualcuno mi aveva fatto i complimenti per il suo pezzo sulla Zognese, così era sul campo di calcetto, indiscusso capitano del Psg Valbrembo, così era in politica durante il suo tentativo in Forza Italia. Io, di estrema sinistra, a menargliela, lui a prendermi per il culo: “Il Silvio ci salverà”. Mesi dopo si era accorto che i partiti sono tutti uguali e non vale la pena buttarci dietro i giorni e i sogni. Mi aveva chiamato per dirmelo, nel suo modo, allegro e scanzonato, quello delle persone intelligenti: “Sai cos’è, direttore? E’ meglio il pallone, gli avversari si possono dribblare…”.
A Valbrembo il calcio era Giovanni Abalsamo, che era pure il Cre d’estate, pomeriggi interi a far giocare i bambini, e Gio era anche le serate più divertenti, a volte ci sono stato anch’io, per via della sua migliore amica, Marina, che conosco abbastanza bene. Tra loro qualcosa di bellissimo: trovarsi, raccontarsela, dividersi i problemi e perdersi a riderne. Ho provato a chiamarla, per dirle due parole, non mi ha risposto, so come sta, male male, e quando succede, a volte, è meglio restare soli, con le finestre chiuse. Le sono comunque accanto. Come sono vicino a Ilaria, che Giovanni ha sposato giovedì scorso, appena prima di andarsene, nel dolore di un male assassino ha trovato la forza di fare la sola cosa che sentiva importante, assicurare a lei e al piccolo Nicola, di appena otto mesi, il futuro che sognava per loro tre, allegro, spensierato, anche comico, meraviglioso, come era Giovanni quando lo incontravi.
Ho tante parole, non so manco se servono, ma mi vengono. Giovanni era amatissimo. Mi ha detto Marco, che oggi lavorava e che tra le lacrime ha messo la notizia, che il nostro sito è crollato cento volte. Troppe visite, migliaia di persone a leggersi la morte di Gio rimanendo increduli, perché è accaduto tutto in fretta, alla cazzo, senza avvertirci. A dicembre era a festeggiare a Milano la vittoria nel derby della sua Inter, ora non c’è più. Non ho creduto a chi mi diceva che stava tanto male, pochi mesi fa l’ho visto ed era lui, forte e spiritoso, ridanciano, innamorato, tre metri sopra il cielo. Mi raccontavano che aveva un brutto male, pensavo esagerassero. E ho sbagliato: Giovanni non c’è più e io manco gli ho detto che era il re dei cronisti sportivi della Valbrembana, il suo luogo naturale, tra quella gente dura che ne adorava la scrittura morbida. Matteo Carminati, convinto da lui a lavorare per noi, amico fraterno di Giovanni, vorrebbe che il palazzetto di Valbrembo fosse intitolato a lui. E’ una bella idea, da fare subito, proponiamolo già mercoledì alle dieci alla chiesa di Ossanesga, al funerale, e raccogliamo le firme che servono.
C’è in questa domenica maledetta un altro lutto che mi lascia senza fiato. E’ quello di Davide Astori, un campione di Serie A, il capitano della Fiorentina, tra i migliori difensori italiani, nato a San Giovanni Bianco, cresciuto a San Pellegrino, forgiato calcisticamente a Ponte San Pietro, tra i Blues, la squadra che l’ha trasformato da talento cristallino a fenomeno. E’ stato trovato senza vita nella sua camera di albergo prima della partita che i viola avrebbero dovuto giocare a Udine. Come Giovanni, Davide era giovane, forte, spiritoso e capace. Come Giovanni, Davide era innamorato e aveva un piccolo fiore appena nato, una bimba. Come con Giovanni io provo a cercarne un senso, ma un senso non c’è.