C’è questa cosa che mi è successa ieri, e che, forse, mi ha cambiato per sempre. Ieri mattina avevo detto ai miei figli, Vinicio, quasi diciassette, Zeno, quasi quindici, che la sera li avrei portati fuori a mangiare. Poi le vicende della mia vita mi hanno fatto accumulare le solite quattro-cinque ore di ritardo sugli impegni giornalieri. Visto che sarei arrivato da loro intorno a mezzanotte, rischiando di essere pappato all’istante dai due perché di questi tempi hanno una fame boia, ho deciso di rimandare la cenetta e le chiacchiere al giorno dopo.
E ho provato ad avvisarli. Intorno alle 16 gli ho mandato un messaggio ed entrambi non hanno dato segnali di vita telefonica, né ingressi recenti su whatsapp, né tantomeno la rassicurante spunta blu all’inizio delle mie parole. Non mi sono preoccupato e ho continuato a fare le mie cose. Alle 18 la redazione era un forno a legna, di quelli recentemente vietati per legge perché sono infernali e nuocciono persino alle pizze quattro formaggi della Val Seriana. Scrivevo con i goccioloni di sudore che cadevano sulla tastiera, pareva di stare in Vietnam, Marco, il mio collega, si stava sciogliendo, perdendo chili su chili mentre faceva delle grafiche. Non eravamo un bel vedere, l’infortunio lavorativo era dietro l’angolo sotto forma di collasso. Così ci siamo fatti una pausa al Blu Puro. Io mi sono bevuto un Negroni per dissetarmi e recuperare i sali minerali perduti. E mi sono messo seriamente a tentare di comunicare con Vinicio e con Zeno. Ho cominciato in modo blando, quattro vocali a testa dal climax crescente, “amore, ti devo dire una cosa…”, “tesoro bello, riesci a metterti in contatto con me?”, “Vinicio, puoi usare il cellulare e degnarti di rispondere a tuo padre?”, “Bonfanti, ma porcazza di quella puttana Eva… Ma si può avere un comportamento del genere con chi ti ha cresciuto facendo immani sacrifici, rimanendo sveglio quando avevi le coliche, cambiandoti ogni volta il pannolino, portandoti al mare o in montagna o al lago di Endine, accompagnandoti a scuola con la Pandona Aranciona a Metano, ripassando le lezioni con te? Ma esiste in te un minimo di gratitudine? Alza quel cazzo di telefono, è un ordine”. Poi ho iniziato a stalkizzarli in modo serio, da denuncia, tre telefonate all’uno, tre all’altro, tre di nuovo al primo, tre ancora al secondo, così, a oltranza. Ormai in fissa, mi sono buttato su parenti stretti e amici d’infanzia. E a un certo punto è accaduto il miracolo, “sì, è qui, te lo passo”, “Ze, non ce la faccio a venire a mangiare”, “no problem, papi, lo dico io a Vini. Ti voglio bene”, “ti voglio bene anch’io”.
L’episodio mi ha dato da pensare. Ho passato in rassegna tutti i masculi che conosco, io compreso, e mi sono accorto che facciamo parecchia fatica a rispondere ai nostri genitori. Dai tredici anni in su, di norma, a meno di grossi problemi di soldi, gli uomini scazzano regolarmente sia le tre-quattro telefonate giornaliere della propria madre che le tre-quattro settimanali del proprio padre. Alle donne non accade mai, piuttosto è il contrario: le figlie si fanno sentire ogni sera per sapere se i vecchi stanno bene.
Questo pomeriggio mia mamma mi ha chiamato. Era al secondo tentativo quotidiano, ero nel casino, ma, diversamente dal solito, le ho risposto. Siamo stati a chiacchierare mezz’ora ed è stato bellissimo. E mi ha mandato pure una serie di sue foto, immagini dove è stupenda, proprio come è lei, la Vale. E io mi sono sentito cambiato, nuovo, meno masculo, con una crescente ed evidente sensibilità femminile, che al nostro mondo può fare solo bene. Soprattutto ai genitori in ansia telefonica come me.
Matteo Bonfanti