di Matteo Bonfanti
Ci sono momenti che ci si accorge di non avere capito nulla e di essere poco intelligenti. Perché la verità era sotto il naso e l’abbiamo evitata, viaggiando in direzione ostinata e contraria, sparando più che altro minchiate. A me sta succedendo col calcio provinciale, ambiente che frequento da undici anni, dalla nascita di Bergamo & Sport, il giornale che ho inventato con un mio amico, Marco, e di cui ora sono il direttore. Ho sempre pensato ai dilettanti come a ragazzi serissimi, simili ai robot, concentrati l’intera settimana sugli allenamenti che portano alla partita, appuntamento sacro e inviolabile da preparare con una lunghissima dormita il sabato notte quando gli altri vanno a divertirsi, a sfasciarsi, a ballare. Poi me li sono immaginati a mangiare la bresaola, l’insaccato più triste del mondo conosciuto, a colazione, a pranzo e a cena. Quindi mi sono convinto che bevessero solo acqua, i più trasgressivi quella frizzante. Poi che non facessero mai l’amore, che non fumassero e che non dicessero le parolacce, figurarsi le bestemmie. Insomma più che con dei calciatori pensavo di avere a che fare con degli adepti di Comunione e Liberazione, prossimi alla beatificazione, in un perenne meeting di Rimini. Un paio di volte ho persino esagerato, ipotizzando che l’undici, tra il primo e il secondo tempo, cantasse  a squarciagola qualche hit dei Gen Rosso, sicuramente l’immancabile “Camminerò sulla tua strada Signor”, in cerchio, mediano e centravanti mano nella mano e con le lacrime agli occhi.
Perché l’ho fatto? Ho giocato anch’io prima che mi cedessero entrambe le ginocchia e facevamo le peggio cose. Il pallone ci piaceva da matti, ma più di tutto c’era il godimento di far parte di un gruppo solidale, indissolubile, granitico. E non ci facevamo mancare niente, neppure il sabato notte al Lavello Dancing dove tentavamo di limonare con donne anziane che non ci guardavano manco di striscio. E ancora adesso, che sono bolso, raramente salto le sfide del martedì e quelle del giovedì con i miei amici al campo a sette di Orio al Serio. E non è l’ora e mezza di partita, tanto è il dopo: la pizza insieme, i racconti che spesso diventano confessioni, le birrette, i mirtini, le sigarette (una dietro l’altra), tornare a casa in aria, felice che ci siano Flavio, Franci, Genio, Rude, Gippo, Richi, Debla, Gigi, Bruno, Sergio, Killer e Ferdi, senza nemmeno ricordarsi se si ha vinto, se si ha perso o se sia finita sul pari.
Lo stesso capita a Loreto, in Seconda. Lo racconta il nostro Biffignandi, giornalista e trequartista col vizio del gol, leader di venticinque ragazzotti che amano soprattutto stare insieme nel loro tempo libero. E nello spogliatoio c’è quello che ha fatto tardi e porta gli occhiali da sole oggi che il cielo è pieno zeppo di nuvoloni e c’è quello che organizza il venerdì matto, c’è il playboy e c’è il fedelissimo alla fidanzata, c’è l’astemio e c’è quello che arriva al campo dopo un interminabile aperitivo. Non è un discorso legato alla categoria: succede a Longuelo, in Prima, o a Sarnico, in Eccellenza, insomma nelle società di ogni paese. E pure in Serie A. Billy Bigliardi, persona squisita, quando gli chiedo della sua carriera, non parla delle semifinali di Coppa Uefa o della lotta scudetto contro il Milan, ma della Napoli by night vissuta con Diego Armando Maradona, il più grande della storia del pallone, l’uomo al mondo più lontano dall’idea di stinco di santo. Bernardini, il Professore, uno che per competenza e passione meriterebbe almeno una panchina in Lega Pro, non ricorda i suoi lanci millimetrici a servire le punte nerazzurre, ma le interminabili cene a chiacchierare  con Riccardone Zampagna, un bicchiere di rosso dopo l’altro, una serie di battute da sganasciarsi. Nel pallone, insomma, la molla non è tenersi in forma. Ma divertirsi, non solo in campo. Del resto il calciatore dice “gioco a calcio” e c’è già tutto lì, spiegato nel dettaglio. Non lo fanno i maratoneti e neppure i ciclisti. Immaginatevi il Falco, il nostro Paolo Savodelli, intervistato in redazione: “Ho giocato alla bicicletta per tre decenni”. Lo prenderemmo per matto perché pedalare in montagna per cento e passa chilometri è fatica, rabbia e lacrime. Altro che gioco, è un lavoro, anzi un lavoraccio. Che non fa il centravanti: ottanta minuti a sonnecchiare pensando alla sua bella, poi il golasso di stinco e la squadra che lo porta in trionfo al bar del paese. A brindare.
Resta il quesito iniziale: da dove mi è venuta la convinzione che il pallone sia praticato da un esercito di devoti-salutisti-perbenisti? Mi è arrivata dai colleghi famosi, quelli di Sky o che scrivono sulla Gazzetta dello Sport, il giornale che beatifica ogni sportivo, sbagliando. Li facesse apparire come sono, identici a noi, con i loro vizi e le loro virtù, ci piacerebbero assai di più. Titolassero: “Il numero cinque sta in panchina, si è alzato male sta mattina. E non va meglio al numero otto che gli ha fatto compagnia fino a un quarto alle sei”. Li sentiremmo vicini e magari torneremmo allo stadio anche solo per dirgli: “Non mollate che se segnate magari il mal di testa vi passa all’istante”.

NELLA FOTO: Daniele Regazzoni, mitico terzino del Longuelo, si diverte in discoteca