di Matteo Bonfanti

E’ tanto che non cazzeggio liberamente tra le parole che amo, quelle che davvero sento dentro, saranno forse un paio di mesi. In questo periodo della mia vita sono impegnato principalmente sul mercato del calcio provinciale, quattro o cinque notiziette al giorno per il nostro sito. Quanto al tempo libero lo passo a manifestare il mio dissenso nei confronti del nuovo governo lanciando provocazioni su facebook alla miriade di convintoni devoti soprattutto alla causa del Movimento Cinque Stelle. Non lo faccio per partito preso, che non ho e non avrò mai, piuttosto per via del mio carattere, dannatamente fuori dal coro, perennemente in senso ostinato e contrario rispetto al pensiero dominante, che mi turba, da sempre, di brutto, perché credo che siano i dubbi il vero tesoro dell’esistenza carnale a cui qualche dio ci ha costretti.

Così sono stato antiberlusconiano, antirenziano, antipentastellato, ora mi diverto a fare l’antisalviniano, anche perché il popolo gialloverde se la prende un sacco, dallo stomaco gli arriva subito al cuore, poi più giù, una frase leggermente critica e s’incazzano più che Zidane con Materazzi nella finalissima del 2006. Mi avessero vicino, Grillo, Di Maio e i loro adepti mi finirebbero a morsi eccitati come sono “dall’avere preso il potere”. Mi spiace, anzi no, perché, onestamente, se da quando ero un ragazzino faccio il (mediocre) giornalista, il motivo sta tutto lì, nella polemica, che, purtroppo (certamente non farò carriera), o per fortuna (sono uno spirito libero), mi fa godere. Resto comunque dell’idea che le linee guida dei nostri nuovi eroi siano sbagliate. Dalla flat tax alle pensioni “cento-cento” fino all’imminente lotta senza quartiere all’immigrazione e ai miei amici educatori che gli africani li aiutano ogni ora per il Comune, siamo sempre dentro allo stesso odioso rimedio per far ripartire la nostra scassata economia, il contrario della geniale pensata avuta anni fa da quel galantuomo di nome Robin e di cognome Hood, ossia siamo ancora al progetto di togliere ai poveri cristi per dare ai ricchi evasori. Spero che il prossimo quinquennio mi smentisca, ma i Paesi che ce la stanno facendo fanno l’esatto opposto, favoriscono giovani e ceto medio perché la battaglia si gioca non su chi la villa con la piscina ce l’ha già, e nei prossimi mesi non ne compererà un’altra, ma su chi ancora è costretto a stare in casa coi genitori e se avesse due soldi un appartamentino a Gorle o a Grumello se lo vorrebbe anche affittare. Travaglio e i tanti cronisti allineati col nuovo potere non saranno d’accordo con me, del resto sono passati da cani da guardia del potere a cani da riporto (o più volgarmente da lecca) e il mio tema del giorno sta proprio qui, è il cane, il mio Savier.

C’è che ho un cane e non l’ho avuto mai e mi dà un sacco   da pensare. C’è che pensavo fosse una cazzata, una sorta   di Furby, l’animaletto elettronico che dopo un lungo periodo passato a lamentarsi nell’armadio un anno fa ho regalato a un tipo pelato e coi baffi a un mio concerto al Tamburlano, località Solza, vicino a Calusco d’Adda. C’è che Savier è diverso, è un’anima, davvero, in carne e ossa. E’ finito a casa nostra come tanti altri disperati raccattati dai miei figli nel periodo di Natale. Eravamo a magnare in un agriturismo, su su, in cima a una montagna lecchese, con un sacco di parenti, e c’era lui, piccolino e insicuro tra i tavoli, tanto bellino che pareva una pecorella, pezzato marrone e bianco, buono e morsicoso, come qualsiasi cucciolo della Terra. I miei ragazzi, Vinicio e Zeno, l’hanno preso, ci siamo detti, promettendocelo sollennemente “lo teniamo in prestito una settimana, poi però lo riportiamo”, e adesso che siamo a inizio giugno sappiamo che non ce ne separeremo mai.

I cani sono il meglio che c’è, Savier mi sta aspettare a casa per ore, poi arrivo e mi corre incontro, felice, senza menarmela che ho fatto tardi che più tardi non si può, mi lecca anche quando non me la aspetto, mi ama, sempre e per sempre, mi chiede un tempo solo per noi due, una passeggiata sulla ciclabile, un’oretta col suo padrone, e dorme con me sul divano, io a pancia in giù, lui cercando un posto, sulle gambe o sulla schiena, appiccicato proprio come le fidanzate quando si va in Seconda Media e non hanno ancora scoperto che razza di truffa siamo noi uomini. C’è che Savier mi sta vicino alla gamba, c’è che capisce ogni mia parola e pure qualche pensiero che mi tengo per me, c’è che più ci sto insieme e più lo vedo simile, la medesima tenera paura di essere abbandonato che io vivo costantemente da quando ero bimbino e mia mamma aveva un consiglio di classe dietro l’altro.

Il bisogno di staccarmi  per un attimo dal calcio mercato in Eccellenza e in Promozione mi è passato. Un attimo e chiudo pensieri e parole al di fuori del pallone, che resta pure ora perché è la seconda cosa che amo di più al mondo. Rimane che il cane è un viaggio che non pensavo fosse così. Dice Bergamopost, e io gli credo, che la nostra  è la città dei cani, quasi ventimila su una popolazione di centomila persone. Significa che ognuno di noi ne frequenta uno, Monica, la mia collega qui al Bergamo & Sport, ad esempio, ha Full, e ne è inseparabile, il suo straordinario bambino, da nutrire e coccolare.

Una persona dolcissima, che sta nel mio cuore, in questi giorni ha perso la sua cagnetta, sedici anni insieme, ed è in lutto, in lacrime, disperata. Parlando con lei ci siamo chiesti dove vanno i cani quando muoiono. La mia idea è che per loro ci sia solo il paradiso, zeppo di crocchette, di ali di pollo e di carezze.  

Nelle foto: Savier, il cane della famiglia Bonfanti, e Full, il cane di Monica Pagani