Ed era sabato, sotto questo sole di fine giugno che manco ad agosto, e loro erano lì, meravigliosi tra la polvere, le margherite e l’erba cresciuta sul campo di Azzano San Paolo, abbracciati durante l’inno d’Italia, sorridenti e fantastici, pronti per la loro partita, per ridere dandosi battaglia, per poi piangere o festeggiare. Cento piccoli eroi, di undici e di dodici anni. Io al microfono avrei voluto dirgli qualcosa di sensato, un discorso di quelli giusti, che a me non riescono mai, un po’ perché scrivo, tanto perché al mondo sono nato e al mondo sono tornato sempre vinto, coltivando con passione il fiore dei miei dubbi, mai la quercia rinsecchita delle certezze che avevo ieri.
Così ho fatto il cretino, parole in circolo e frasi a vanvera per allontanare la mia profonda timidezza, che nascondo in ogni dove, tra i cassetti del comò della casa dove sono nato o nella valigia di cartone appoggiata in fondo ai miei occhi celesti. I ragazzi ridevano, che gli dicevo che sono una pippa sulla trequarti, ma che io a quarantacinque anni suonati sogno ancora di giocare la prossima finale di Champions League.
Fossi stato un bravo oratore oppure anche solo un uomo dalla dialettica normale avrei iniziato il mio discorso citando a memoria Beckenbauer, il Franz, che racconta che il pallone è lo sport più democratico al mondo, l’unico in cui non conta se sei alto o piccoletto, se sei bianco, giallo o nero, il solo dove non importa quanti soldi hanno in tasca i tuoi genitori, se sei qui da sempre oppure se sei arrivato grazie al passaggio di un barcone. Nel calcio è metterci le gambe, il cervello e il cuore per superare il tuo avversario, in tackle se giochi in difesa, con una rovesciata se parti all’attacco, con un lancio lungo se sulla maglia hai il numero quattro, l’otto o il dieci.
Poi gli avrei detto dei compagni, tra i pochissimi che ti danno ogni volta una mano, anche se magari avete fatto insieme una piccola stagione nei pulcini, amici veri, disponibili e innamorati, che ti ascoltano per ore sotto la doccia quando ti sembra che tutto ti stia girando male. Gli avrei spiegato l’immenso valore di prendere un cartellino rosso per proteste se l’arbitro dà un gol in palese fuorigioco agli avversari, il bisogno di battersi sempre e per sempre contro le ingiustizie, quelle sul rettangolo di gioco, come le altre, a casa, a scuola e in ufficio. Gli avrei raccontato dello sguardo fiero di mio babbo prima, durante e dopo ogni mia partita. E avrei concluso con i mister, gente unica, adulti rari perché in quell’idea meravigliosa, il diritto al divertirsi di qualsiasi bambino o ragazzo. Avrei voluto ricordargli che il calcio è questo, il paradiso.
Ma non c’era bisogno, perché chi gioca lo sa. Così sono corso ad abbracciare il più piccolo di tutti, accarezzandogli i capelli, augurandogli di non smettere mai.
Matteo Bonfanti