Ieri sera ho sentito mia nonna piangere ed è stata la prima volta. L’ho chiamata in una piccola pausa dei miei casini, per farlo sono andato una scappata nel mio posto migliore, accanto al fiume, ho fatto il numero, uno dei tre che so da sempre a memoria, e mi ha risposto con la sua solita frase, “Sei tu, Matteo?”, le ho detto “Sì”, mi ha detto “Scusa per le lacrime, che Giovanni aveva novantaquattro anni, ma mi vengono e non riesco a farle smettere, era mio fratello, è stato un pezzo della mia vita ed è anche accorgersi che stiamo andando via tutti”. L’ho coccolata a distanza, sottovoce, per non disturbare, mi ha rassicurato che avrebbe fatto passare la tristezza che sentiva nel suo cuore, le ho fatto una promessa, “un giorno di questi vengo a trovarti a Bologna e ci resto un paio di notti”, nel mare dei suoi occhi ho immaginato di scorgere il suo sorriso, quello che le viene tra i fornelli, “avvisami che ti faccio le tagliatelle”. Ho chiuso dicendole “coraggio, sono qui accanto a te, ti voglio tanto bene”, e io ero grande e lei era piccolina, come non mi era successo mai. La telefonata è durata un secondo, o almeno mi è sembrato così, poi ci siamo salutati e avevo addosso un’istantanea in bianco e nero, che forse però è solo una mia fantasia: mia nonna e suo fratello scalzi, bambini, abbracciati nella casa di Sant’Agata Bolognese, quasi un secolo fa. Sono stato tra quelle mura, un’estate, da ragazzino, appena finita la prima liceo, tentavo di prepararmi all’esame di riparazione di matematica lontano da Lecco, dove abitavo e c’erano i miei amici. Ma anche lì studiare era impossibile, perché c’erano un sacco di parenti, ognuno con la propria storia da raccontare, e poi tutto attorno i campi erano gialli e coltivati e io avevo già il vizio di camminare, cacciavo bisce e lucertole, cercavo in riva ai fossi quelle che sarebbero diventate le parole della mia anima.
Di sera tornavo, mangiavo con Vittorio e Maria, i miei bisnonni, e mi chiudevo nella camera dove c’era il giradischi. Mettevo e rimettevo un trentatre giri di Vasco Rossi, “Vado al massimo”. Ero innamorato di una ragazza che stava nella mia città, su al Nord, trecento chilometri e passa dalla via Emilia, così, immerso nella mia prima vera cotta, spostavo perennemente la puntina su “Canzone”, qualcosa di magico, coi brividi sulla pelle e fin giù, nelle gambe, e pure dentro, nella pancia. Penso che l’album fosse di Cesare, Cremonini, figlio di Giovanni, che quelle stanze, d’inverno, le viveva quasi ogni giorno quando andava dai suoi nonni. Ieri gli avrei voluto scrivere due righe nell’acqua per la morte di suo papà, che è lo zio di mia mamma, un medico, duro e ruvido da quel poco che mi hanno raccontato, ma anche buono, generoso, presente, capace di un amore smisurato per i suoi figli, Vittorio e, appunto, Cesare, cantante e cantautore, ora poeta, e, chi lo è, ha genitori in gamba, di quelli che insegnano ai propri ragazzi a mettere il cuore e le parole davanti a tutto, anche quando sanguinano. Ho iniziato il messaggio, ma non mi veniva niente di bello, solo frasi di circostanza, perché con la testa ero da un’altra parte, avevo accanto mio figlio Vinicio, domani tredicenne e che tra una vita ne avrà novantaquattro e sarà sempre lui, ma anche l’esatto opposto di quello che è adesso, ed è normale che un bambino paffuto diventi un ragazzo con la forza e la voglia di spaccare il mondo, per poi trasformarsi in un uomo grande e forte, quindi in un vecchino fragile, eppure a me sembra sempre impossibile che sia così.

Nella foto: mia sorella Chiara, ora quarantasettenne, mia mamma, Valeria, che adesso ha 68 anni, io, Matteo, 42, mia nonna Pina, 92