C’è questo mio bisogno di essere abbracciato, di un corpo che mi tocca dolcemente, almeno per un’ora da parte a parte, fino ai piedi, ripetendomi vecchie frasi ormai nuove, in quel profumo che in questo tempo immobile mi era sembrato di ricordare di avere già dimenticato. Persino le parole, perse, come nella canzone che dà il via a Radio Freccia, pure quelle che avevo lì un attimo fa, sedute ad aspettarmi in riva al mio unico fosso. Mi sono girato un attimo a guardarmi e all’improvviso non c’erano più. E per un mese, prima di te, neppure gli alberi, manco la luce della luna o i lampioni in centro senza un’anima viva intorno o, ancora, ogni mollica lasciata sulla strada per ritrovare la via di casa, sentivo fossero quel minimo abbastanza. Dicevi “tornerò”, ma io non è che ci credevo davvero e così a lungo, pensavo stessi mentendomi come quasi tutti hanno fatto con me. Sopra il mio petto mi sussuravano “ti amo”, “ti amo tantissimo come quando non si può tornare indietro”, “ti amo e sarà sempre e per sempre dovessi pure scappare per mettermi al riparo dalla tua malinconia”, iniziando poi ad odiarmi appena gli avevo aperto il mio cuore, fragile e leggero, proprio come quello di un comico, che sai che sono. E’ la vita. Ma non per noi due. Ti alzi prestissimo, a piccoli passi ti prendi quel che resta del divano, il confine sottilissimo tra l’aria che gira intorno e il mio corpo disteso, mi abbracci e mi tieni stretto, mi racconti e ridi, dedicandoti, sapendo benissimo che ho bisogno di quell’ora addosso per riuscire a stare in pari in questo mondo. Finita la tua missione, io vado e tu vai. Ma non c’è un lontano nel nostro lontano. E davvero vorrei che non ci fosse mai.
Matteo Bonfanti
A Ze, mio figlio, recentemente tornato da un mese in Perù, come da foto