di Matteo Bonfanti
Pazzini a parte, che magari mi sbaglio, ma mi è sempre sembrato un tipo dal carattere complesso, uno che in fondo all’anima ha pure, forti, la tristezza, la rabbia e la felicità, gli altri mi sono parsi dei robottini, fin dall’inizio, l’algido esordio in prima squadra. Troppo seri, intendo disciplinati. E senz’arte perché i loro maestri gli aveva insegnato a soffocare le emozioni necessarie a crearla. Per questo non mi accodo al pensiero generale, ma, per una volta, sono dalla parte del presidente Percassi. Che ha fatto fuori Favini e ha fatto bene.
Negli ultimi due decenni il vivaio dell’Atalanta è stato un allevamento di polli in batteria. Ordine e disciplina. Chi usciva dal coro, dimostrando di avere una variopinta gamma di sentimenti e il bisogno di crescere anche grazie ad esperienze lontane dal pallone, lasciava la compagnia, libero di trovarsi una nuova sistemazione. E’ il caso di Zaza, in prospettiva uno dei più forti attaccanti italiani. Uno che in campo la tenta e che mi ricorda parecchio Zampagna, due che in nerazzurro sono durati assai poco.
Il mago di Meda ha costruito soldati, corridori disciplinati, muscoli e fiato, alcuni anche discreti tecnicamente, mai però geniali, ottimi per la panchina, per la mezzoretta finale, quando c’è da portare a casa il risultato. Parlo dei gemelli Zenoni, di Donati, di Montolivo, di Padoin, di Gabbiadini, di Bonaventura, di Baselli e di Zappacosta. Così i portieri, Consigli e Sportiello, che non sono fenomeni, ma hanno il pregio di incappare rarissimamente nella papera. Che fa Buffon dopo mille prodezze perché è un artista, unico, forte e fragile contemporaneamente.
Il pallone è cambiato. Credo da una decina d’anni. Che ci piaccia o no è diventato uno spettacolo. Come un concerto, come una performance teatrale. Non è più uno sport e le partite non le vincono gli sportivi, ma i talenti, in ogni ambito perennemente al limite. Il malinconico Messi, il re delle discoteche Neymar e il vampiro Suarez, i tre tenori che hanno portato il Barcellona sul tetto d’Europa, dipingono, superando, per novanta minuti, l’inquietudine che si portano appresso. Il loro calcio, così come le loro vite, è fuori da ogni schema. E’ quello che non t’aspetti, è istinto, fantasia, pensieri brutti e belli, egoismo e narcisismo, le cose che Favini chiede ai suoi atleti di abbandonare quando a dieci anni entrano a far parte della rinomata scuola Atalanta.
Bravo Percassi. Che tagliando Favini allinea la Dea all’idea che da quest’estate sta diventando il pensiero unico pure nei settori giovanili italiani. Il calcio è arte, l’epoca dei muscolari costruiti a pane e acqua in collegio è finita. Ora la sfida è trovare nel mondo, per poi portarlo a crescere a Bergamo, il nuovo Messi o quello che ricorda Roberto Baggio o un Maradonino o un piccolo George Best, i bimbi che vanno in porta scartando tutti nonostante le grida dei compagni e dei genitori. In quest’ottica l’esempio è la cantera. Anni fa mi capitò di parlare con un dirigente blaugrana, un gran tipo, colto, appassionato di Montalban e di Galeano. L’occasione un torneo a Costa di Mezzate tra quattro squadre Primavera. Finale Barca-Milan. Commentando l’8-1 per i suoi, che in attacco schieravano Mauro Icardi, il dirigente spagnolo mi spiegò la motivazione della schiacciante vittoria: “I nostri ieri sera sono usciti. Hanno fatto tardissimo, si sono parecchio divertiti. E giocano felici. I rossoneri, invece, sono andati a letto presto…”.