di Simone Fornoni

La paura è la cifra dell’esistenza. Non sussistono dubbi che sia un motore potente per attrezzarsi a sopravvivere: l’angoscia di essere inadeguati spinge ad acquisire sempre più conoscenze organizzandosi al meglio, il timore della morte ad assaporare la quotidianità con più consapevolezza e pienezza. Per dirne due fra le tante. Oggi è tutto cambiato. Perché tutte finiscono per riassumerne in una soltanto: la paura del Coronavirus, la peste dell’ultimo quadrimestre, che è poi quella atavica del contagio e soprattutto dell’untore. L’altro da sé che incute terrore. Il coming out sanitario di Gian Piero Gasperini alla Gazzetta dello Sport ne è la conferma, avendo scatenato la rituale ridda di belati dei pecoroni.

Fare screenshot delle cazzate sesquipedali pescate qua e là sui social o anche solo linkarle sarebbe una pubblicità gratuita al gregge suddetto e certamente pessima per l’intero genere umano. Meglio soprassedere, citando i versi alla rinfusa di presunti esseri senzienti perennemente a dito puntato come i grandi megafoni della disinformazione di regime: ecco, vedete, l’Atalanta ha tenuto nascosto gli infetti, il Gasp se ne esce due mesi e mezzo dopo Valencia e chissà quante vittime deve aver provocato insieme alla sua banda di milionari del pallone. Perché la rivelazione a posteriori di aver patito i sintomi del Covid-19 già alla vigilia dell’ottavo di ritorno di Champions League al “Mestalla”, alle orecchie del pecorume rimesso in libertà a tappe dall’avvocato del popolo che pensa per tutti e tutto dispone, dev’essere suonata come la confessione di una colpa.

Inutile sottolineare quanto la paura del mister, anche quella di andare tra i più senza aver compiuto la missione terrena di dare concretezza ai sogni del suo fedelissimo popolo pallonaro tinto di nerazzurro, abbia rinfocolato la cenere mai spenta davvero della teoria della bomba biologica e dell’acceleratore del contagio che l’eliminatoria coi Pipistrelli si trascina dietro fin dai quarantacinquemila di San Siro del 19 febbraio. Ammalati accertati cinque, con il 35 per cento di giocatori e staff valenciani invece positivi quasi un mese dopo. Avessero fatto tamponi e sierologico a tutti i presenti, anziché perdersi in ciance, l’argomento avrebbe anche potuto reggere. Così, no di certo.

La paura di Gian Piero Gasperini, professione allenatore, cittadino italiano e dipendente dell’Atalanta Bergamasca Calcio, ammessa e impiattata senza remore sulla tavola di Luigi Garlando, che è un suo amico oltre che un giornalista e scrittore piuttosto quotato, è la paura di tutti noi. Dichiararla non è da tutti: dipende dal carattere, dalla personalità, dal pudore, dalla diplomazia. Eppure esiste, inutile negarlo. Il problema è che averla esternata a cose fatte ha finito per scatenare un putiferio, coi laziali (per dire) che non vedono l’ora di farci il culo a tutti noi, bergamaschi untori e colpiti più di tutti dalla tragedia, come se ammalarsi e crepare fosse una questione di tifo dal settore ospiti o dalla curva di casa. Buttiamo un sassetto nello stagno: ognuno, inteso come club, pensi agli infortuni all’interno del proprio centro sportivo, senza curarsi di ficcare il naso in quello altrui, magari evitando di stendere un telo pietoso sulle partitelle a protocolli non ancora approvati.

Apriti cielo, adesso passa il messaggio che la colpa del contagio è dei bergamaschi, anzi no dell’Atalanta, o meglio di Gasperini, che ha fatto star male Milano, la Lombardia, Valencia e tutta la Spagna, escluse le colonie americane ma solo perché indipendenti da tempo. Gli strilloni ovini hanno si sono visti servire il capro espiatorio su un vassoio d’argento e ci stanno pasteggiando alla grande, con la fierezza che contraddistingue i vigliacchi e i maldicenti, quelli che sono bravi e ligi al dovere solo loro. Potere della propaganda, che per coprire le incapacità a monte ha ordinato di colpire a valle seminando tra la gente il virus del sospetto reciproco. Ovvero, in barba allo stato di diritto, ognuno è un potenziale killer dell’altro fino a prova contraria. A che e chi giova la confessione postuma della malattia? In un Paese ipocrita e cattivo, tanto da aver imparato a odiare se stesso, di sicuro non agli onesti e ai sinceri. I galloni si guadagnano tenendosi le magnagne per sé e additando al pubblico disprezzo solo quelle degli altri. Da brave spie e pecore ubbidienti. In attesa di essere tosate fino alla nuda pelle.