Sono un ragazzo fortunato, ho fatto le quattro di mattina a chiacchierare con mio figlio Zeno, quasi tredici anni, dopo un’intera giornata con Vinicio, quasi quindici, e una settimana passata tra noi tre in quella Kasba che è dove viviamo, in via Santa Caterina 3. C’era Diego, quasi quattordici, futuro cuoco, che ha deciso di vivere con noi, ma è un’altra storia che prima o poi racconterò, quella che la famiglia te la puoi anche scegliere, cambiarla per un periodo, se con la tua, l’originaria, è un momento che va così così.
Torno al tema, che è ieri, quando ho scoperto che i miei quattro picciriddi adorati sono diventati adulti. Magnavamo tutti a Valgre, da Erni e dalla Vale, mia mamma. Io facevo il cretino, che è quello che mi viene meglio quando sono in famiglia. Puntavo, va detto con mia sorella Chiara, a tentare di fottere il famoso Atchugarry, piccola scultura, ma di immenso valore che sta a casa di mia madre e che, vendendola (tanto è solo un pezzo di marmo), ci permetterebbe di cambiare il nostro parco macchine, eliminando la Pandona Aranciona a Metano che sta tirando gli ultimi. Nelle pause sigaretta io e Riccardo, mio cognato, pensavamo a come farne una copia in plexiglass da un mio carissimo amico di Cisano, mettere il falso sulla mensola, portare via l’originale, quindi vendere l’opera ai mercanti d’arte.
C’era mio nipote, Pietro, quasi ventitre anni, che è super, uguale identico a Jon Baker, il socio bello di Ponciarelli dei Chips, serie che vedevo da bambino. Altone, magrone, biondone, buono, in gamba e pure un sacco ironico con gli occhi. Era di fretta. Doveva andare dalla sua ragazza, mi ha chiesto un momento. Ci siamo abbracciati stretti stretti e senza parole, con quell’energia bellissima identica a quando me lo portavo via e andavamo alla Minitalia a fare strage di sciatorini sulle Alpi piccolotte, due metri per due. Mi ha detto: “Zio, ci tenevo. Solo questo. Poi passo a Bergamo e ti dico”.
C’era Anita, la mia nipotina nipotona, diciotto compiuti, prossima all’esame di scuola guida, stupenda, femminista alle prime armi, festeggiata perché ha passato alla grande la maturità e ora farà Biologia, sicché Mendel, Lamarck e Darwin, un’ora di menate con me dure dure, che io le spiegavo che chi si mette col perizoma e a novanta su feisbuc lo fa perché vuole far arrapare noi masculi. Lei mi rispondeva, incazzata nera, che una donna ha tutto il diritto di starsene mezza nuda sui social e noi uomini non dobbiamo romperle i maroni perché lo fa per sé e non per invitarci tutti sabato sera prossimo a scopà. E se un omo pensa che lo stia facendo per farsi vedere, insomma per i mi piace e un centinaio di messaggi su messenger pop porno, è un maschilista di merda, al primo passo per giustificare lo stupro. Bello, bellissimo, questionare con lei. Aveva parole forti e intelligenti. E’ una ragazza eccezionale, stupenda esteticamente, e con una testa gigante, dico il cervello, non la grandezza della crapa, che è normale, un sacco proporzionata, penso a quello che c’è dentro. Andrà lontano senza avere bisogno di fare l’occhietto o di sbaciucchiare il capo di turno, se mai ne avrò uno perché ha la stoffa della leader. Mi ha salutato: “Che poi te zio sei un figlio dei fiori e non vali, vorresti un mondo con tutti biotti e tutti felici a scopà, quindi ti perdono”. E mi ha abbracciato, fortissimo come se non ci fosse un domani. Tenera.
Alle undici siamo tornati a Bergamo. Era notte, c’era la luna. Vinicio e Zeno mi facevano compagnia. Erano grandi. A turno mi dicevano come la pensavano, entrambi d’accordo con Anita. A una certa Vinicione ha sentenziato per chiudere il dibattito: “Se te papà fai una foto al mare in costume, non è che lo fai per fare proposte sessuali a chi la vede. Per quello c’è Tinder… Stai a cazzeggiare, quindi piantala di fare l’antico commentando il mezzo nudismo sui social. Va bene tutto. E’ un gioco”. E mi ha accarezzato forte, da dietro, accarezzandomi i capelli lunghi. Ammazza se è in gamba.
Diego è tornato dai suoi, Vinicio è andato a letto che aveva il corso di recupero e doveva svegliarsi alle sette di mattina, Zeno si è messo a parlare a sferlo. Commentavamo storie di persone a noi care. Siamo andati avanti quattro ore e ci vorrebbe un nuovo Vestaglietta, 354 pagine di pensieri scritti in fila, per raccontarli tutti. Ne dico solo uno, che io, quasi 45 anni, non ci sono arrivato mai, anche perché figlio di insegnanti e la mia bocciatura in seconda superiore è stata un lutto manco mi fosse morta l’intera stirpe all’improvviso su un volo Alitalia diretto a Bangkok. Mi ha detto, lui che ha avuto una pagella tra l’otto, il nove e il dieci: “Non è che se uno va bene a scuola, significa che vale. E’ solo che è portato per quella cosa. Ma conosco di persona gente meravigliosa che è stata bocciata e ha un cuore stupendo e gente che ha la media del dieci, ma che a me non piace. Ognuno fa il suo percorso. E ci sono tante persone che alle medie facevano pena ed ora sono di successo. Non sono i voti nella vita, è il cuore”. E lì ci siamo messi a ballare, una canzone delle sue, su YouTube, avvinghiati.
Solo questo. Un minuto fa Pietro, Anita, Vinicio e Zeno erano piccoli piccoli. Ora sono grandi. E’ stato un attimo, due battiti di ciglia. Se mi sento un ragazzo fortunato è perché sono cresciuti sani, grandi, forti e controvento, il mio orgoglio è che in questo viaggio ci sono stato anche io. A confonderli ogni volta dolcemente. Abbracciato.
Matteo Bonfanti
Nella foto di ieri: Pietro, Vini, Ze e Ani, bellissimi, ormai adulti