Ed è andata così, che mi sono scordato della cosa che per me è più importante, scrivere almeno dieci minuti qualche parola che sento sospesa. Ne avevo così tante, dappertutto, tra le mani, in fondo al cuore, persino sette frasi che mi stavano dentro allo stomaco, ma ero troppo preso e sono arrivato solo ora al mio godimento, che è pure la mia liberazione, l’una e trentacinque circa di notte della domenica. Mi accade sempre uguale, fin da bambino, per via di mia nonna Pina, che mi ripete da quando sono nato “prima il dovere, poi il piacere” e succede che mettermi a raccontare sia sempre l’ultima cosa della mia fila perché mi fa stare bene bene, identico a vedere un film bello bello su Netflix.
Intanto racconto un po’ di me. Diversamente dai giornalisti famosi o ricchi di famiglia o bravi bravi, io qui al giornale sono un po’ come gli ingredienti di un cocktail, per un quarto faccio il direttore, che è tipo l’aperol, per l’altro il cronista sportivo, a volte un bel prosecco, poi mi smezzo tra fare l’agente pubblicitario, che è l’acqua minerale gasatissima, e il grafico, il mio dramma, impossibile da associare a qualcosa che si beve coi soci giusti, se proprio il succo all’arancia di cui io sono allergico.
Così questa settimana avevo centoquattro loghini da mettere in due pagine del giornale, quelle che vedete, ed era una fatica immane, pure per via del mio computer che stava tirando gli ultimi. Del resto il mio lavoro da tipografo è questo: cerco in internet la scrittina di chi mi ha fatto la pubblicità, la scarico, la apro su Photoshop e la ridimensiono per farcela stare precisa precisa nello spazietto che ho pensato per lei. Ma loro, dico le scrittine, che sono bastardine inside, mi prendono per il culo e nel quadrettino che gli propongo non ci stanno quasi mai. Cerco di metterle in cella, ma loro a starci dentro soffrono. Sicché si ribellano, io ci riprovo, non ce la faccio e al settimo tentativo mi consegno a un onesto lavoro di merda.
Mi è accaduto ieri, è stato un attimo, era sera, subito dopo il Sassuolo col Verona, intorno alle cinque e tre quarti, ero al novantasettesimo loghino e mi sono messo a pregare il demonio. Ho detto a Satana: “Se tu mi finisci le pagine, io ti prometto che cambio squadra. Passo da voi, i cugini, mi metto anche a ballare all’inferno se ti aggrada. Dico addio a Jesus, alla Madonna e a Dio. Gli spiego che sono tuo, solo tuo sempre e per sempre. E ti prometto non mi cimenterò mai più a recitare dei Padre Nostro in serie per evitare il conflitto nucleare del mondo contro la Corea del Nord che sono un botto cattivi. Tu prendimi pure l’anima, ma aiutami ora, che ho cinque adolescentini che stanno a fare i matti sul tetto dell’ex Reggiani e devo andare a salvarli, per poi fargli da mangiare, forse un piatto di pasta col pesto buono che mi ha dato lunedì Ernesto se non se lo sono già pappato nel pomeriggio. Altrimenti vado di sofficini e buona notte ai suonatori”.
L’angelo nero non mi ha cagato. E manco è apparso, neppure per una dozzina di minuti. E io sono andato al Blu Puro a farmi uno Spritz d’asporto per non pensare ai miei figli in pericolo. Potere dell’alcol, una figata perché d’improvviso non ci pensavo più. Stavo beato tra i loghini.
Evito di parlare della mia serata, comunque bella nonostante che a una certa, le due e sette della notte secondo l’orologio che sta nella mia sala, non sapessi bene dove fossero i miei cinque adolescentini, due miei, forse, perché la madre è certa, ma il babbo mai e poi mai, una giovane parente stretta stretta, due acquisiti perché sentono che la mia casa è diventata da un annetto il posto del loro cuore.
Avevo promesso a Monica di scrivere di Casadei, il mio idolo assoluto per via di “Ciao Mare”, che una canzone così la fai solo se sei un genio circondato da fenomeni della poesia italiana tutti intorno a sballarti duro e di brutto in serate bianche e interminabili lungo una Riviera deserta in gennaio in mezzo a mille fighe straordinarie perché lunghe lunghe, senza tette e per questo giustamente malinconiche. Da anni mi ero messo, volevo conoscerlo, ora è morto e mi dispiace non averlo abbracciato almeno un’ora, stretto appiccicato, magari baciandolo un poco, strusciandomi, dicendogli per l’occasione e vestito di fresco, con un onesto completino appena comperato da Zara: “Ue, Raul, io una cosa come l’hai fatta tu manco se rinasco col cervello di Einstein. Ti amo, re del liscio. Fai buon viaggio”.
Poi ieri sera tanto altro parecchio interessante, un bravo tipo, buono buono, innamorato di una donna bellissimissima a chiedermi un sacco di consigli via whatsapp su come farla innamorare di lui manco io fossi Brad Pitt o Cesare Cremonini o Mario Vargas Llosa. Quindi l’ex Reggiani la notte, che i miei adolescentini alla fine li ho salvati, recuperandoli dai ruderi fighissimi che stanno lì, in una fabbrica abbandonata che a me piace da matti perché è il decadimento che si crea quando l’uomo se ne va e arriva la natura a riprendersi i suoi spazi. Ancora, c’è pure questa giornata di merda che dovrei raccontare, con l’Inter che vince, il mio Milan che perde e il mio computer che muore sul più bello, per via dei loghini liberi e cattivi, immagino no vax, ma forse sto esagerando perché in realtà non sono così male. A volte sono comprensivi. E va detto che sento che ci tengono un pochino a me. In ultimo, ma non per importanza, le melanzane alla parmigiana, se siano meglio con o senza ragù. E la notte, immancabile ogni volta che scrivo perché è lì che trovo la mia anima libera e nuda, a parlarmi e a chiedermi di ballare, ovviamente un valzer dell’Orchestra Casadei.
Di tutto ne racconterò, a tempo debito, subito dopo che avrò fatto un degno al funerale al mio pc, tredici anni insieme, una vita, qualcuno che mi ha amato tanto e così a lungo che io tra gli umani non è che un sostegno tanto appassionato l’abbia avuto mai, ma, lo spiegassi, diventerebbe un nuovo pezzo e ne ho già quattro da fare.
Matteo Bonfanti
Nelle foto le tre pagine di “We’re the fubal” coi famosi loghini delle tante persone bellissime che ci sono a Bergamo, pronte a dare una mano nella sfiga, per metterla agli altri in pari. E’ la canzone del calcio dilettanti, che ho scritto una sera manco tanto lontana per beneficenza, nel sogno di aiutare chi sta di merda per questa merda che è il covid. Ho fatto qualcosa di buono, ma che mi ha portato a questo, la morte del mio computer, l’Hp special, un compagno, sempre complice, che ora piango in redazione. Quindi devo pensare ai miei giorni, spiegandoli a Ze Ze, il mio dolce psicologo che vedo a Monza ogni lunedì pomeriggio, cioè domani