I gatti sanno tutto, persino il perché, e io da quando abito qui, abbastanza solo soletto in via Malfassi 6, arrivo e al portone c’è lui. È gigante, è bellissimo, grande due gatti almeno, è fiero e distaccato, ha i miei colori, blond red head, e da più di un anno mi osserva. Sa che ho amato, troppo o troppo poco, sa che il mio tempo è la notte, sa che vorrei eliminare i mattini, sa che per lavoro scrivo, sa che per farlo devo stare appiccicato alla luna, uguale identico ai poeti, a Gianni Rodari. Lo vedo e mi immagino un centinaio di favole al telefono piccole e piccolotte, modeste come sono io, cortissime, di appena un centimetro e sei millimetri. E il gattone giallorosso mi legge nel pensiero, ride, mi fa le facce come le fanno i gatti, quelle facce lì, irresistibili alla schiuma dei giorni, dolcissime e gradasse, bullandosi di saperne un sacco, di essere molto, ma molto moltissimo, più in gamba di me. Sono un uomo buono, sarei anche potuto diventare cattivo perché c’è chi mi ha fatto del male senza motivo, per via dei miei occhi celesti o, ancora, perché accarezzavo i grilli e le bisce nelle mie notti a Consonno, ma ho dimenticato oppure non mi è interessato ricordare perché far delle guerre non mi piace, piuttosto guardare all’insù per accorgermi un’altra volta del blu appena dopo aver fatto l’amore nel mio cielo, la mia stanza. Così oggi tornavo in tana, di nuovo e nuovamente con questo grattacapo di noi, dico la mia parte, la cosa che da un po’ ci inquina i giorni, l’immenso macigno di un genocidio che ogni sera ci presenta il conto salato dei bimbetti e dei gatti uccisi brutalmente, le categorie per me migliori, le due che mi accolgono sempre, che non mi hanno tradito mai. E lui, il gattone gigante blond red head, lo ha sentito, e per la prima volta mi si è avvicinato, tra le gambe e poi in braccio, a farsi coccolare, per consolarmi, per farmi amare con tutto me stesso quel che è necessario, la pace che è la cura tra noi che siamo esseri umani.
Matteo Bonfanti