Sono di Lecco e poi nel Lecco ci ho pure giocato, un anno da bimbino, in quinta elementare, finivo scuola e arrivava il pulmino per portarci al campo, alla guida c’era mio zio Franco, che aveva vestito la maglia bluceleste da ragazzo per poi fare una discreta carriera nei dilettanti della Valtellina. Era un ex autista delle ambulanze dell’ospedale, andava come un pazzo e noi stavamo lì attaccati alla maniglia. Ci prendeva tutti per il culo, e andare e venire da Molteno, dove ci allenavamo tre volte la settimana, era spesso il momento più divertente della mia giornata. Altri tempi, un altro calcio, sono ormai passati più di trent’anni eppure sembra ieri, noi ragazzi dell’oratorio dei Frati, io e Marco e Maurizio, i formidabili gemelli Colombo, al Rigamonti Ceppi con decine di altri bambini. All’epoca le società professionistiche i propri settori giovanili li costruivano così: finite le scuole, c’era il sacro giorno della leva calcio, chi se la sentiva, ci provava, una squadra contro l’altra, blucelesti contro amaranto, casacchine sponsorizzate Caffè Milani. Poi il responsabile del vivaio, Ostinelli, mandava la lettera a casa dei 76 e dei 77 scelti per formare la rosa dei pulcini. “Ti è arrivata?”, “No, però ci spero, ho fatto due gol, magari ce l’ho fatta”, un mese nell’attesa sognando a occhi aperti durante le partite record in parrocchia, anche otto ore di fubal continuato e senza bere un goccio d’acqua.
Il nostro mister era Andrissi, giovane giovane, io ero tra i più piccolini perché le annate erano due. Ero rosso di capelli, già anarchico, lui s’incazzava e mi metteva in panchina: “Hai ancora le scarpe da calcio sporche e vi abbiamo dato il buono per andare a prendere quelle coi tacchetti mobili, ma tu te ne freghi e hai solo quelle coi fissi. Giochi giusto gli ultimi dieci minuti, mi dispiace perché hai talento, ma con quella testa lì non vai da nessuna parte”. E io ci restavo male, ma era più importante non adeguarmi alle sue regole che trovavo assurde. Pensavo: “Perché lavare le scarpe se poi si sporcano di nuovo?”. Va beh, è acqua passata, anzi fango passato. L’anno dopo avevo chiesto a Ostinelli di essere ceduto, volevo giocare nella squadra del mio oratorio, a cento metri da casa mia, l’Aurora San Francesco, a cui sono ancora oggi legato, grato per avermi insegnato centinaia di cose belle, soprattutto quella di stare in un gruppo senza l’assillo di vincere, ma nell’idea di divertirsi, diventando amici per sempre… con le scarpe sporche.
Sono di Lecco e poi il Lecco l’ho visto giocare cento volte. Da piccolino, con Raggi capitano, un bomber straordinario, che poi ho conosciuto di persona quando allenava nella Bergamasca, scoprendo un uomo squisito. Più grandino, andavo allo stadio nella meravigliosa stagione targata mister Donadoni.
E allora in questi giorni mi sento un po’ come i bergamaschi prima dell’andata degli ottavi di Champions col Valencia, in quella festa di popolo vissuta a San Siro. Domenica ci giochiamo la Serie B, dalla redazione cercherò in televisione mio papà, Marco, che sta al Lecco come il mio amico Gigi sta all’Atalanta, fedeli alla maglia nella miseria come nella grandezza, nella gioia e nel dolore, senza tentennamenti, uguali a due eterni sposini. Sogno una vittoria perché per mio padre e per la mia città sarebbe un’immensa gioia sportiva che si meritano dopo tanti anni di pane duro.
Matteo Bonfanti