Ci siamo ritrovati nel cerchio di centrocampo prima del fischio d’inizio, ognuno con la maglia della sua squadra, ognuno con obiettivi e sensazioni diverse, ognuno con ambizioni di classifica diverse, ma tutti e due con una fascia da capitano al braccio e un’esperienza di vita quotidiana fuori dal calcio comune. Migliori amici ai tempi dell’asilo, uniti dall’innata passione per il calcio e anche dal nome: Federico. Io, capitano per un giorno del Loreto. Lui, Federico Bosco, capitano dell’Uso Zanica. Sapevo che l’avrei incontrato in campo, a dire il vero ci eravamo già incontrati nelle giovanili e ci eravamo incrociati fuori dal campo, ma mai ci eravamo riavvicinati così tanto perché, come spesso accade da ‘studenti’, una volta che le strade scolastiche prendono direzioni diverse ci si perde. Ma qualcosa rimane dentro sempre con freschezza e nitidezza. E allora quando ci siamo ritrovati a guidare le fila delle nostre squadre all’ingresso in campo ho rivissuto certe emozioni. Il clima di tensione del pre partita si mescolava a quell’atmosfera dolce, frenetica, pura e di amicizia da asilo. L’odore del campo che non è definibile perché è semplicemente “l’odore del campo” si alternava a quello un po’ più soffocante e caldo che si respirava nelle aule e nei corridoi dell’asilo. Le voci, gli incitamenti, le pacche sulle spalle le avvertivo ma ogni tanto sparivano e lasciavano posto alle grida delle maestre e al continuo vociare squillante dei piccoli allievi. Qualche sguardo tra di noi, un po’ di timidezza, nessuna parola particolare, ma dentro di noi il sorriso di chi ritrova una vecchia amicizia. Poi, nel cerchio di centrocampo, la stretta di mano e un “ciao Fede” che si è sovrapposto per un attimo, detto proprio come a quei tempi: non una stretta di mano da giocatori ma da amici, come se la confidenza di quei tre anni fosse stata rispolverata e si fosse ripresentata totalmente. Perché si sa che qualcosa rimane dentro sempre con freschezza e nitidezza. In quel momento sono tornato ancora indietro a ripensare a quando eravamo capitani e si facevano le squadre per dannarci l’anima dietro ad un pallone (o meglio, un oggetto semi sferico che noi usavamo come fosse un pallone) nell’atrio dell’asilo col pavimento marrone freddo e la porta vetrata d’ingresso a fare da porta. Io da una parte, lui dall’altra, una scelta a testa come hanno fatto tutti da piccoli. Poi la partita e tutto sembrava essere tornato come una volta. Duelli serrati fatti di velocità (mia) contro eleganza (sua), all’attacco (io) e in difesa (lui), il tutto intervallato da sorrisi, scambio di battute, commenti, scuse che mi hanno fatto ricordare perché l’avevo scelto come amico (migliore amico) e mi hanno fatto notare come la sua disciplina l’abbia trasmessa anche alla sua squadra, prima in classifica ma (incredibilmente) non antipatica perché umile, silenziosa e rispettosa. E alla fine la stretta di mano, ancora timida, senza troppe manifestazioni esplicite ma accompagnata da un “ciao Fede” identico a quello delle 16.30, di quando uscivamo dall’asilo e ci davamo appuntamento alla partita del giorno dopo.
Federico Biffignandi