Il Loreto visto da dentro lo spogliatoio, settima puntata, lunedì 22 settembre 2014

Ci sono delle domeniche in cui la sera, ad ora ormai inoltrata, decidi che, dopo esserti sorbito dieci volte i gol della domenica in tv e aver fatto uno zapping assonnato, provi a chiudere gli occhi e a metterti a letto. Ma è proprio in quel momento che il film della partita che hai giocato poche ore prima ti passa davanti e prendere sonno diventa un’impresa. Se la partita è andata alla grande hai ancora in corpo l’adrenalina, se è andata molto male sei rammaricato ma il peggio è quando è andata così così e ti porti dietro mille rimpianti. Proprio come è successo ieri dopo il pareggio contro il Vidalengo subito in rimonta e dopo aver sprecato tante, troppe, occasioni. Girarsi e rigirarsi nel letto diventa un movimento nervoso e automatico soprattutto quando ad aver sbagliato i gol più facili e che avrebbero potuto far star tranquilla la tua squadra li hai sbagliati proprio tu. La faccia del portiere che ti affronta in uscita diventa l’incubo peggiore ma più di ogni altra cosa è il fermo immagine salvato nel proprio cervello, quello del pallone che fa la barba al palo dopo una conclusione fatta a due passi dalla porta, che ti tormenta. O ancora il pallone che sbatte su quel palo maledetto e ancora la palla che impatta sulla rete di protezione dietro la porta invece che insaccarsi nella rete bianca sostenuta dai tre pali. Il gol che comunque hai siglato (quello del 2-0) conta meno, finisce nella parte più remota della memoria e non consola. E dire che il mister a fine primo tempo ce lo aveva detto chiaro e tondo col tono di voce sostenuto, il primo tono di voce sostenuto della stagione. “Sappiamo il nostro carattere, non dobbiamo abbassare il ritmo neanche un attimo altrimenti finisce male. Ricordiamoci cosa è successo l’anno scorso: abbiamo finito il primo tempo 4-0 e non siamo riusciti a vincerla poi. Abbiamo sbagliato troppo e adesso dobbiamo soffrire, ogni domenica bisogna soffrire, mettiamocelo bene in testa: qui si viene a far fatica”. La risposta nostra negli spogliatoi è stata convincente con incitamenti reciproci ma le facce non erano delle più convinte, a pensarci dopo. E infatti al rientro in campo abbiamo cominciato a soffrire e ad essere troppo leziosi in fase offensiva: succede spesso così quando hai ampi spazi in attacco e potresti fare quello che vuoi. Un po’ il “braccino” che prende ai tennisti che diventa fatale, quella paura di fare gol e chiudere la partita, che non si capisce da dove arrivi ma che sussiste. Gli ultimi minuti li vivo dalla panchina sul risultato di 2-1, gli animi sono ancora sereni perché pensi “non può finir male”, mancano 4 minuti e si tenta di alleviare la tensione con qualche sorriso ma quando la rete si gonfia improvvisamente e decreta il pareggio su un pasticcio la luce si spegne, la voce sparisce, gli sguardi si fanno rabbiosi e tristi. Rimane tutto così, dal momento del gol a quello in cui ci si saluta e ci si dà l’arrivederci a martedì con gli occhi bassi. Da lì in poi è tutto un rimorso e un lungo mugugno fino al momento in cui si chiudono gli occhi e torna davanti agli occhi il film della partita: “Ma come ho fatto a non fare gol?”.

Federico Biffignandi