Nell’ennesimo tentativo di ritornare agli ottanta, non il decennio, ma il mio peso forma perduto d’un colpo negli anni del covid e mai più ritrovato, martedì ho inaugurato il mese dello sportivo. Progetto alquanto semplice, ogni giorno una disciplina, un’ora, un’oretta e mezza di fatica per essere pronto in luglio alla prova costume senza però rinunciare ai piaceri della vita, gli hamburgheroni con le patate al forno del vicino Bike Fellas, i casoncelli buonissimi e il vitello tonnato freschissimo della Giuliana, le tennentsine in serie al Blu Puro finito di lavorare. Così martedì sera mi sono dato anima e corpo al calcio a Orio, ma non nel mio solito modo sfaticato, ossia in azione giusto in un paio di occasioni per dare una piccola ma significativa testimonianza della mia presenza sul rettangolo di gioco. Diciamo che sono sceso in campo con maggiore e rinnovata convinzione, dieci metri più indietro, nel vivo della battaglia. Ho fatto quattro gol e tre assist, vincendo una partita dopo mesi, ho sudato come un ossesso, ho anche tirato quattro porconi e nella foga ho menato il giusto il povero Zio Ferdinand che mi marcava. Poi mi sono bevuto due birrette per recuperare i sali minerali, quindi mi sono pesato e ho visto che ero 92, uguale a prima del match, ma non mi sono perso d’animo. Mercoledì sono andato a correre, verso San Vigilio col piglio di Rocky IV, quando Stallone era bollito e si rimetteva in sesto per sfidare Ivan Drago. Musichetta nelle orecchie e grinta da vendere, alla Marianna boccheggiavo. Non ho mollato e ho raggiunto l’obiettivo. Per premiarmi di tanto sforzo sono andato a sfondarmi dall’indiano. Nella notte il giudizio della bilancia, 92, né più né meno. Ieri, allora, ho tentato l’impresa del secolo in bicicletta, il tappone Piazzale San Paolo-Selvino, paese in Val Seriana, già meta della corsa in rosa. Va detto a onor del vero che ignoravo fosse qualcosa di tanto massacrante nonostante il viso scettico del mio collega Carmelo alla partenza fissata alle 19.30, subito dopo che mi ero bevuto un Negroni d’asporto liscio, insomma senza ghiaccio. A volte serve un motivo, canta giustamente Ligabue, il mio era andare a trovare Paolo, il signor Grigis, dirigente della Falco Albino, un uomo di cui sono innamorato da una decina d’anni. Non la faccio tanto lunga: fino a Nembro tutto bene, bigi elettrica carica, io che andavo come un treno facendo sostanzialmente della cyclette di un certo livello. Al settimo dei diciannove tornanti della famigerata “Salita dei campioni bergamaschi”, immediatamente dopo aver fatto il figo con la sigaretta in bocca e col trench in bella vista mentre superavo a razzo una ciclista seria bionda di capelli, l’improvviso black out della batteria e il ritorno all’antico, quella cosa brutta brutta che è spingere sui pedali. Da lì il calvario, zeppo di visioni del passato, tra cui il passaggio della borraccia targata Pentole Agnelli tra Coppi e Bartali, con relativo rimprovero dei due sul mio stato di forma. Il tracollo a duecento metri dall’arrivo, sul cartello dedicato ad Antonio e Guglielmo Pesenti, e gli inutili messaggini disperati a parenti e amici. Immancabili le preghiere, seguite dall’apparizione della Madonna (come testimonia la foto) e il conseguente miracolo, l’arrivo di Paolo per caricarmi la Yellow in macchina e portarmi a mangiare in pizzeria facendomi passare una serata in cui non riuscivamo mai a smettere di ridere. Va beh, che altro? La bilancia… Che segna sempre 92, ma, a questo punto, penso che sia rotta.
Matteo Bonfanti