Ogni sera, amore mio, abbracciati stretti stretti sul divano balliamo il verso di una canzone di Tom Waits. Dice “il mondo è in mano agli orfani” e né io né te avremo mai la Terra tra le dita, visto l’amore delle madri che ci sono toccate in sorte, perennemente presenti, costantemente assenti. Così io resterò un comico e spaventato guerriero mentre tu diventerai un piccolo grande uomo senza pretese, di quelli che prima, durante e dopo l’Atalanta, la fabbrica, gli amici d’infanzia, il sabato sera con la figa di sempre, il nuovo tatuaggio, la Mini, ma a rate, dal Bergauto.
Poi Tom Waits va avanti a cantare, e qui ci siamo noi, dico proprio noi, quando racconta “che può essere orfano anche un treno” e il gioco è il solito, quello degli specchi, tra qualche anno ogni mattina andrai alla stazione e avrai la mia stessa voglia di partire, ma resterai tornando alle sette di sera perché avrai a casa un figlio come te.
Uno come te, che se chiude gli occhi, vede il mare senza andare lontano. Ed è un altro verso di una canzone, questa volta che non sai, ma che conoscerai, del resto tra noi è sempre stata la musica che gira intorno. Che ti incazzi e allora parti coi lamenti che non c’è manco un mio brano su spotify che porta il tuo nome, mentre tuo fratello ne ha uno tutto suo, Vinicio, ma non sai che dopo te qualsiasi cosa che ho scritto sa del tuo viso perché sei tu, tu mio, e ogni volta che ti guardo, sono ancora io, ma da un po’ neppure a metà, solo riflesso in te.
Di me hai la dolcezza, che di questi tempi social è una cattiva sorte, di me l’amore per chiunque che porta alla fiducia anche verso i malfattori, che sono tanti tanti persino qui nel tuo amato borgo, di me alzarsi ogni mattina col piede sinistro e la certezza che sarà bellissimo, che poi non è proprio così e ti succederà di trovarti in un angolo del Parco Suardi solo e nel pianto. Di me che siamo i secondi di due, quindi “Ninni”, con quello che comporta: essere più grandi, pari ai nostri primi che ce la raccontano facendocela vivere, ma con quel cavolo di dovere, restare piccoli per chi ci ha cresciuto e ne ha ancora un immenso bisogno.
E c’è Bergamo, tua tua, in quel modo estremo e incomprensibile di voi bergamaschi, che qui “Pota, papà, è il massimo” perché ci sono il Bocia, Gabri, Cesa, il Papu, Città Olta, che io, che sono tuo babbo e sono nato al di là dell’Adda, ti vedo come un marziano, che non ti capisco perché non ce l’ho dentro, che per me un posto è uguale all’altro e dove sono chissene, mentre tu pure alle Baleari sentivi la malinconia del Sentierone.
Sei bello, ti adoro, e a tuo comando ti ho scritto questa lettera e mi è venuta in un minuto tanto mi piaci. Ne ho fatta una per tuo fratello Vinicio un mese fa. Su tuo consiglio, per andare in pari, mi sono messo stasera perché fai undici anni e io, che sono sempre a bolletta, di regalo ti svelo un segreto nel valzer delle canzoni che tanto ami. Solo una volta mi è capitato che Dio mi dettasse un verso, ed è stata una magia, eri in braccio, appena nato, e il Signore mi ha sussurato all’orecchio. E’ in una minuscola canzoncina di Natale, dice: “Mi va bene, mi va male, la neve cade uguale, ci sei te. Sono stanco e sono felice, lo so perché mi piace, ci sei te”. E undici anni dopo è ancora così, auguri, amore mio, Zen.

Matteo Bonfanti