“Perché se la mamma ti picchia, fa bene e se invece la menassi tu, sarebbe un dramma infinito?”, “Semplicemente perché io peso ottantacinque chili e un mio pugno in pancia le farebbe malissimo mentre un suo mi fa sempre un sacco ridere perché è magra magra ed è quasi una carezza”, “Quindi si possono menare solo le donne grasse?”, “No, Ze, nessuna, mi sono spiegato male… Volevo dire che noi uomini siamo più forti fisicamente, quindi, quando mettiamo addosso le mani a una donna, siamo pericolosi e meritiamo la galera, ma pure un sacco di sedute da un bravo psicologo. Se lo facciamo, diventa tutto buio, perché giochiamo una partita sapendo già di vincerla, come a tennis contro il famoso tennista senza braccia. E non è divertente, è bruttissimo. Non è così quando accade il contrario. Le volte che tua mamma me le ha date, non mi ha fatto niente. Era giusto per risvegliarmi quell’attimo…”, “Da che cosa?”, “Dal maschilismo che c’è in ognuno di noi e che è una malattia brutta brutta”, “E tu da chi l’hai presa?”, “Dal mondo che fin da piccolo mi ha detto che io potevo fare tutto mentre la mia compagna di banco niente”, “Ma tipo?”, “Tipo che se io mi fidanzavo con dieci ragazze, ero un mito, per tutti un figo della Madonna, mentre se lei baciava due ragazzi, era una maledetta puttana con la lebbra, da insultare davanti agli altri”, “E chi l’ha inventato questo ragionamento assurdo?”, “Noi uomini per fare il cazzo che ci pare”, “E come è possibile che le donne l’abbiano accettato?”, “Con le botte, per la paura di prenderle. Per questo devi batterti contro la violenza sulle donne, perché ogni volta che qualcuno fa male a una donna, torna quella cosa lì. Si chiama ingiustizia”.
Io e Zeno, mio figlio, dodici anni, ieri sera nel lettone, chiacchierando delle ragioni della giornata di oggi.
Matteo Bonfanti