di Matteo Bonfanti
Ormai per me arrivare in redazione è come sedersi sul lettino dello psicologo. Due i terapeuti, prima era di turno Monica Pagani, ora Marco Neri, due liberi professionisti dell’anima bravissimi, entrambi freudiani, disponibili a qualsiasi ora del giorno, comprensivi, direi addirittura complici. Però sfibrati, perché come paziente valgo meno che zero, faccio costanti passi indietro, quindi sto valutando seriamente di lasciarli un po’ in pace, curando le mie nevrosi lontano dal nostro ufficio piccino picciò.
Tanti i tentativi fatti negli ultimi giorni per liberare i colleghi della mia costante chiacchiera molesta e lamentosa. Certamente va ricordato il fine settimana alcolico passato a Modena a fare il finto figlio ribelle della coppia formata da Fabio Spaterna (famoso pezzo grosso della Uisp) e Elena Benicchio (donna strasimpatica e alquanto misericordiosa), piccioncini presto sposi che paiono il video della canzone “Love is in the air”.  Commoventi con me, nel loro affetto costante, rigenenerante in questo momento dove nessuno mi vuole male, ma sono davvero pochi quelli che sento mi vogliono davvero bene.
Tra questi Fabrizio Bugada, il maestro della mia nuova disciplina, che è la nobile arte, per tutti il pugilato. Ci sono andato per la prima volta con Ermal, che è il mio socio belloccio e muscoloso, e il primo impatto è stato traumatico. Era sera, mi avvicinavo all’ingresso della palestra della Bergamo Boxe con la mia solita andatura presa in prestito dalla musica reggae di Bob Marley e Peter Tosh, l’immancabile sigaretta in bocca, la tosse da maledettaccio e quel paio di bianchi fermi in panza, giusto per arrivare distrutto al primo allenamento. Vedendomi, Bugada mi ha subito messo in riga, sgridandomi: “E tu vieni nel tempio della salute fumando? Buttala, immediatamente”. Non ho fatto una piega, manco gli ho risposto. Ho alzato le spalle senza protestare perché a quarant’anni conosco la mia strada, e so che ogni cosa in cui mi metto segue sempre lo stesso percorso: l’inizio è sgangherato e divento il re del cattivo esempio, poi inizio a nascondermi finché divento bravino, quindi mi invaso e sogno di fare la storia della materia in questione, ma la mia situazione non migliora, resto un mediocre che ce la mette tutta, arrivando con sforzi malefici al livello di quegli altri, i talentuosi che però se ne fottono. Mi è accaduto nella mia famiglia originaria, a scuola, nel calcio, nella musica, nel giornalismo, nell’amore, va così persino coi miei figli, che hanno nove e undici anni e mi guardano in quel modo lì, pensando “il nostro babbo è un po’ tarato però s’impegna un sacco. Diamogli la mano”.
Torno al pugilato, che anche se ancora non sembra, è il tema del mio articolo. C’è la corda da saltare e faccio una faticaccia perché sono quell’attimo scoordinato. Ci sono le flessioni, le corse a perdifiato, una panca da superare, due pesi da sollevare, un pallone che pare fatto di marmo, la cyclette, i guantoni e il sacco. C’è la mia testa che si ferma e io sono solo gambe e braccia, che finalmente sorridono perché si sentono importanti. C’è Fabrizio Bugada, che ci spiega gli esercizi e lo fa in un modo piacevole, da burbero simpatico, da ex pugile, cresciuto tra boxeur, gente dalla poesia smisurata, a cui fanno migliaia di film, capolavori tipo Rocky che a me mette addosso i brividini.
Le mie nevrosi sono sempre lì, non mi lasciano e poi non è che quattro sedute alla Bergamo Boxe le fanno scomparire all’improvviso. Mi sa che sarà un po’ come dallo psicologo, che servirà andarci quotidianamente per degli anni. Eppure ieri sera sono tornato a casa dopo un’ora a tirare pugni ed ero talmente rilassato che sono riuscito a mettermi buono buono sul divano, solo io e un librone, un meraviglioso racconto partigiano di Adelmo Cervi. Ma questa è un’altra storia.

NELLA FOTO: IL MAESTRO FABRIZIO BUGADA DELLA BERGAMO BOXE