Era ieri, ero solo in casa, stremato dopo aver fatto una manciata di pulizie, centosette piatti lavati a mano e otto magliette stese sul terrazzo perché da un mesetto erano immerse nel lavandino del bagno e rischiavano di trasformarsi in muffa. Cazzeggiavo guardando un po’ i social. Ad un certo punto mi è apparsa l’intera storia dei due rapper che vicino a dove sono nato hanno aggredito un uomo di colore. Ho letto il titolo e le prime righe, poi mi sono fermato nell’idea che ai bulli razzisti manco un minuto dei miei occhi azzurri. Ma qualcosa mi colpiva, m’incasinava nel profondo, in quella via stretta stretta e zeppa di fiori che sta tra l’universo e il mio cuore. Sarà forse perché aspettavo i miei figli, Vinicio e Zeno, di ritorno dal mare, che hanno quell’età lì, non riuscivo a smettere di guardare il viso di uno dei due giovani, Jordan Jeffrey Baby, e mi saliva un senso di profondo smarrimento misto a quello di una sconfitta in una partita di calcio che si poteva vincere facile e invece si è perduta cinque a zero. Era un giovane uomo completamente sfigurato dai tatuaggi, che mi piacciono, ma non così. In questo modo estremo è condannarsi sempre e per sempre all’essere il peggiore, l’orco, il cattivo, quello che resta indietro spesso finendo dietro le sbarre perché interpreta un personaggio odioso, scelto, credo, per soffocare un’angosciante solitudine. Di JJB potrei essere il padre e lo potrebbero essere tutti i miei amici più cari che hanno la mia età. E mi chiedevo “perché gli abbiamo permesso di rovinarsi così? Perché al primo video con le pistole non siamo corsi a parlargli? Perché non l’abbiamo portato a vedere il mare? Perché non gli abbiamo raccontato la storia di Bansky? Perché non gli abbiamo insegnato a suonare con la chitarra Altrove di Morgan e Il suonatore Jones di De André? Perché non l’abbiamo mai abbracciato?”. Jordan è poco più di un bambino e una società si misura da quanto si occupa dei suoi cuccioli. Ce ne siamo dimenticati, scordandoci della povera gente, mettendola nei ghetti delle nostre squallide periferie, lasciando che sia mentre eravamo tra noi, la casta chiusa che balla “Come è bello far l’amore da Trieste in giù” nell’appartamento in centro. Non ci salverà dai coltelli oscurare i loro video da instagram, ma cominciare a prendercene cura.
Matteo Bonfanti