di Matteo Bonfanti
Ora che è più o meno l’una e trentacinque circa potrei tranquillamente andarmene a letto. Perché ho fatto una giornata da buon cristiano come non mi succedeva da un sacco di tempo e meriterei di riposare. Ne avrei ogni diritto. Eppure non lo faccio perché ho avuto dei chiari segnali divini: il Signore non vuole che io sia un bravo tipo che si sveglia presto e che aumenta il Pil. Ha scelto per me una strada diversa. Mi preferisce tiratardi, scioperato e a letto un po’ ubriaco. Sicché non mi stendo e vado avanti a scrivere, sorseggiando una Ceres all’ora fino alle quattro.
Andiamo con ordine. Dal mattino. Analizzando i fatti. Mi sono svegliato alle nove ed ero talmente in forma che mi sono persino fatto la doccia. Esagerando: lavandomi i capelli due volte, con shampoo e balsamo, e cospargendo il mio corpo assai puzzolente di doccia schiuma felce azzurra. Che non so perché, ma mi fa sentire come Rocky IV prima dell’attesissimo incontro con Ivan Drago. Quindi cantavo a squarciagola “ta ta ta” “ta ta ta” “ta ta ta” “ta ta ta” “ta ta ta ta ta ta” “ta ta ta ta ta ta ta ta”. Dopo mezz’oretta, due caffè, tre sigarette, sempre in accappatoio e muovendo spesso i pugni, mi sono detto: “Bonfi mio, andiamo a spaccare il mondo. E’ il momento”. Mi sono vestito più elegante non si può, ho preso la Fiat Panda e sono andato in redazione. E mi sono messo a fare il direttore, non io che nel ruolo sono naif, ma uno di quelli veri, raccontati dal vecchissimissimo collega Franco Abruzzo nel corso di aggiornamento più folle che ci sia mai stato e a cui ho dovuto partecipare – per forza – la mattina del 21 ottobre alla sede orobica di Confindustria. Da quest’anno è la regola: noi giornalisti dobbiamo seguire delle lezioni, quattro o cinque, per continuare a esercitare la nostra professione. Mi aspettavo, da uomo normale, manco tanto intelligente quale sono, fossero tenuti da cronisti giovani, rampanti e fenomenali, in grado in tre parole di trasformare la comatosa editoria italiana in uno spettacolo fiorente di luci, colori e cotillon. Tre illuminanti consigli sul futuro che verrà e il mio Bergamo & Sport che lunedì vende dieci milioni di copie, tre in Cina, due in Argentina, le altre nella Bergamasca (ogni abitante della provincia orobica ne acquista cinque copie, Percassi e Renzi le comprano a tutti i neonati, baby di origine extracomunitaria compresi, e alle donne, ma solo se sotto i quindicimila euro di reddito annuo). Invece a insegnarmi a portare avanti il giornale c’erano due anziani, va detto dignitosi e vestiti a modo, quasi commoventi come certi nonni quando mettono il completo della festa per andare alla comunione della nipotina. Il primo, tale Marco Volpati, spiegava la deontologia professionale, qualcosa che in vent’anni di carriera avrò sentito settantamila volte. Tanto ero annoiato che mi sono messo a fare l’upupa. Facevo il verso, ero pure abbastanza bravo. E piaceva, gran parte della platea apprezzava. Poi ho iniziato a nitrire, ma a fare il cavallo bizzarro sono scarso, ho poca qualità, non ho la voce giusta, quindi la delusione era palpabile. Il vecchio era disturbato, si girava. Io gli facevo l’occhietto e gli indicavo il colpevole degli schiamazzi: uno dell’Eco silenziosissimo, serio e molto alto, distinto, che era sotto di me e che si stava portando avanti col lavoro mandando raffiche di mail ai collaboratori. Dopo miliardi di schede a video su un fottio di leggi (e io impegnato anima e corpo a oscurarle, proiettando ombre cinesi, soprattutto dinosauri e corna, mai il dito medio), l’attempato Volpati ha passato la parola al già citato Abruzzo. Che, visto che la metà di noi dormiva (o costruiva aeroplanini di carta di un certo livello), ha scelto di scuoterci cominciando il suo intervento con un tema di quelli potenti, da brividi, di stretta attualità: la stampa nel 1861. Avessi avuto della benzina, mi sarei dato fuoco. Non ce l’avevo. Allora ho finto di avere un sacco di mal di pancia, mi sono sforzato e ho scoreggiato addosso a un paio di colleghi per giustificarmi, per fargli capire che avrei voluto restare lì, ma stavo davvero malissimo ed ero pericoloso. Se andavo via, insomma, era per loro, mi sacrificavo per la loro incolumità. Mi hanno guardato come a dire “vai, vai, tranquillo, ti capiamo, non facciamo le spie” e sono uscito dall’aula rinchiudendomi dentro al primo bar. Ho fatto colazione al tavolino, leggendo due giornali belli grossi, la Gazzetta e il Corriere. Avrò passato lì un paio d’ore, pensavo che Abruzzo avesse quasi finito e fosse arrivato a delirare libero sull’avvento di internet. E sono tornato per fare bella figura. Ma il cronista-pensionato (simile a una tartarugona gigante) era fermo, bloccato, era ancora a raccontare del fascismo. Mi ha colto lo sconforto, mi veniva da piangere. Mi son detto: “Non è vita. Qui non è altro che stare incastrato nella porta girevole di una stanza che non ha né luci né finestre”. E mi sono messo di buzzo buono a strozzarmi che è cosa assai piacevole. E quando ci si diverte, il tempo vola.
Ma torniamo alla mia giornata di oggi. Prima che divagassi sulla mia mattinata in Confindustria coi due vecchietti terribili, ma ripeto dall’aspetto impeccabile (direi addirittura alla moda se fossimo stati ospiti a un funerale di un collega celebrato nei favolosi anni ottanta), ero a parlare della mia incredibile e inaspettata verve mattutina. In redazione alle dieci spaccate tra l’incredulità generale. Monica, la mia socia, che arriva sempre presto ed è una macchina tante cose fa, mi ha guardato preoccupata: “E’ successo qualcosa? Ti offro un caffè? Stai male? Vuoi parlare?”. Tenera. Pensava avessi litigato con mia moglie e fossi andato a dormire nella nostra sede,  di là, dove abbiamo l’archivio, tra i giornali. Convinto e gradasso, l’ho zittita: “Ho da lavorare”. E mi sono attaccato al telefono, mettendomi a smarronare i nostri poveri collaboratori, tra l’altro dei ragazzi splendidi, bravi e disponibili, che si meritano tutto tranne che un capo delirante che gli assegna servizi del terzo tipo disturbandoli mentre stanno lavorando seriamente. L’apoteosi verso sera con Gadda, giovane giornalista molto capace e straordinariamente appassionato. Tema Mozzo-Locate, Seconda categoria, Girone A. “Guarda Marco, non è difficile. Fai la disposizione tattica per il campone, le foto ai due mister intanto ti segni la cronaca, abbozzi le pagelle, trovi una storia carina, te la fai raccontare e fotografi qualcuno di speciale sugli spalti. Ricordati di segnarti le occasioni create dalle due squadre, dividendole in quelle nello specchio e fuori. Poi porti due cronometri di precisione e iniziamo una rubrica nuova: il possesso palla. Occhio ai contrasti, serve il millimetro. Chiama, magari, un parente, che ne so una sorella. Ce l’hai?”.  Gadda, che è pure educato, non mi ha mandato a fanculo. L’ho fatto io tra me e me: “Marco, perdonami, scherzo”. Gadda domenica al campo ci sarà, tre ottimi collaboratori non seguiranno nessuna partita. Colpa mia.
Alle 20.30 ero sempre nel trip del direttore vincente, quello che non deve chiedere mai, che sa ogni cosa, che straparla e che lo fa a vanvera. Ero dietro a lavorare da dodici ore e cazzate ne avevo combinate parecchie, avrei dovuto mettermi sul divano, steso ed ebete, collegato a un canale a caso di Sky, ad esempio quello che ci aggiorna quotidianamente sul contagio mondiale dell’Ebola che mi galvanizza assai perché mi straspaventa, mi fa venire i brividini. Rimbesuito davanti alla tv, avrei evitato ulteriori danni. Invece sono andato avanti a testa bassa sulla strada che avevo tracciato nelle prime ore del giorno. E ho accompagnato la mia povera moglie a un incontro di lavoro, per la Amway. Dovevo tenere i nostri bambini, un attimo e mi sono messo in mezzo. Mi sono proposto come consulente di un colosso che fattura ogni anno cinquanta miliardi di euro. La tipa, un’ex pallavolista della Foppapedretti, rilassata, in gamba, se prima era assai convinta di formare mia moglie per farla entrare nella sua azienda, leader mondiale di cinque prodotti, dopo la chiacchierata con me ha iniziato ad arretrare. Come darle torto? C’è stato un momento che volevo insegnarle il lavoro. Le avrei persino tirato una testata per farle capire l’arte del vendere, l’insita poesia. Cosa che tra l’altro non so minimamente. La riprova è la mia Vespa, che vale un migliaio di euro, ferma qui fuori dal bagno della redazione da un anno e che non uso più perché sostengo porti una sfiga bestiale (non compratela, è maledetta!).
Morale della favola: alzarsi presto la mattina, in forma e attivi, è un errore. Tiratevi in piedi a mezzogiorno col mal di testa da birretta, non lavatevi da nessuna parte, fate poco e chiacchierate il meno possibile. Non date ordini, i dipendenti hanno bisogno di essere lasciati in pace. La vita vi sorriderà. E pure Dio che ci guida dall’alto ed è un pezzo di pane, una sorta di brioches. Di sera storditevi di Ceres sul divano, grattandovi. Ma siate previdenti. Tenete a portata di mano una scatola di Moment per il giorno seguente.

NELLA FOTO: FRANCO ABRUZZO, PADRE DEL GIORNALISMO ITALIANO