Il tempo. Quello che non basta mai. Quello che troppe volte mi sfugge dalle mani. Quello che non pretendo di arrestare ma almeno rallentare per darmi modo di viverlo come vorrei, come meriterebbe. Io faccio un lavoro direttamente connesso al tempo ed allo stress che esso comporta. A volte sento la necessità di abbandonare, non questo mestiere perché non è lui il vero problema bensì questa realtà: scappare, uscire, staccare. Tutti hanno necessità di una valvola di sfogo e per me, una di queste, è rappresentata da Verania, dal mondo fantastico che ho creato nei miei libri e che spesso mi accoglie. Sì, vero, I’m a dreamer, sono un sognatore, ma non per questo vivo tra le nuvole, anche se non posso omettere buchi di memoria imbarazzanti, che però maschero abilmente con l’ineluttabile anzianità che avanza giorno dopo giorno. Sono però cosciente di essere fortunato perché molti, per attraversare questo (chiamiamolo) portale verso un’altra dimensione, fanno uso di “additivi” più o meno legali che gli consentono di fuggire da una realtà che a volte li opprime e che spesso rifiutano. I bambini: loro lo fanno sistematicamente e senza il minimo sforzo grazie al candore dei loro anni, grazie all’ingenuità che ancora gli appartiene. Almeno in parte io lo sono rimasto, ingenuo dico, è per questo motivo che spesso si sono approfittati di me sebbene ora, a cinquant’anni suonati, ho imparato a difendermi affidandomi totalmente alle impressioni su chi mi si para d’innanzi (ma questa è un’altra storia). Gli adulti in genere hanno perso questa facoltà, questa capacità di viaggiare con l’immaginazione perché schiacciati dagli impegni e dalla frenesia del nostro tempo. Per alcuni basta poco, basta una piccola spinta e riprendono a volare come da piccoli, per altri invece non c’è più speranza perché morta e sepolta. Voglio citare un ricordo a me caro che risale esattamente a trent’anni orsono quando, durante il mio ultimo anno di superiori all’I.T.I.S. Benedetto Castelli di Brescia, ho conosciuto colei che per prima mi ha portato in un’altra dimensione, risvegliando appunto la capacità che avevo da fanciullo e che poi mi è rimasta. Aurora il suo nome: una ragazza che ho costatato in seguito non fosse di questo mondo. Non era uno schianto ma nemmeno un cesso inguardabile, “la stàa n’del ros” come si dice a Bergamo, ma per me era tremendamente affascinante perché sentivo un’energia misteriosa che mi attraeva. Tempo dopo quando, sentimentalmente parlando, mi sono legato a lei, ho finalmente capito cos’era quella forza sconosciuta: la prima volta è successo in una piazza di Brescia, e non mi riferisco al mero atto sessuale come qualcuno presuppone già sogghignando ma, più semplicemente, al giorno che ci siamo stesi abbracciati su di una panchina. Appoggiato a terra avevo messo un piccolo registratore con dentro una mia cassetta da 45 minuti con registrata una sola canzone, la nostra, ripetuta all’infinito: “Chissà se lo sai” di Lucio Dalla. Ricordo che la gente, come solito fare, circolava con passo frenetico diretta alla propria destinazione, talvolta buttando uno sguardo di commiserazione ma più spesso ignorandoci. Io dopo poco non ci ho più fatto caso perché lei, il suo essere, ha preteso la mia totale attenzione con una semplice carezza in volto. Rammento come fosse ora la sua testa sul mio petto, il suo respiro profondo, il battito del suo cuore lento, cadenzato, che ha obbligato il mio a rallentare per poi battere all’unisono col suo. Quella ragazza mi stava trasmettendo la serenità necessaria al “salto”: in quel momento ho avuto la netta sensazione di stare accanto alla creatura più preziosa che potesse esistere su questa Terra. D’un tratto ogni cosa attorno a me è scomparsa lasciandoci sospesi nel nulla più assoluto, abbracciati su quella panchina senza desiderare nient’altro che questo: fantastico, pressoché indescrivibile, posso solo dire che è stato come tornare al candore dell’età fanciullesca.
Un giorno purtroppo la magia è finita, anzi per essere precisi io l’ho fatta finire perché Aurora doveva stare sempre di più nel suo mondo ed io non potevo, non volevo perdere il contatto con questa realtà e così facendo ho perso lei, irrimediabilmente. Sono passati trent’anni da quel periodo ma quanto di straordinario ho provato su quella panchina è rimasto indelebile nel mio animo nonostante la violenza della vita abbia tentato più volte di strapparmelo di dosso. Ho vissuto fino ad oggi, e vivrò ancora il tempo che mi sarà concesso, con il solo intento di tornare in quel luogo, in quella condizione eterea di estremo equilibrio tra avere e desiderare.
Marcus Joseph Bax