C’è che io, va detto fino a oggi, ho odiato due cose in vita mia, le mattine e le pastine, che, poi, a vederla bene, fanno anche rima e quindi aveva pure un senso. Poi ho questi miei strani capelli rosci rosci, ereditati da mia mamma, la Vale, che hanno comportamenti assai strani, sempre magici. Li taglio corti corti dal cinese di viale Giulio Cesare, passano tre giorni e si allungano a dismisura arrivando ogni volta all’inizio delle spalle. E lì si fermano per mesi, anche per un anno se tra rossi, biondi e biondicci si trovano d’accordo.
Così mi è capitato che ero piccolo ed era mattina, la mia, non quella degli altri, più o meno mezzogiorno, il momento in cui la gran parte è già bella che stanca muerta mentre io mi stiracchio sul divano cercando di capire chi sono grazie alle note domande che ci si fa tutti almeno una volta al giorno, ossia: “C’è un dio? C’è una vita oltre la Terra? Che minchia mi accadrà il giorno in cui sarò in una cassa di compensato del mio caro amico Salvatore Monieri?”.
Va bé, in quell’attimo che vorrei raccontare ero a Bologna, era il 1999 ed ero giovane, un ventenne che finiva al Dall’Ara per vedersi i rossoblù. Ero un ragazzotto già dentro al vizio dei miei capelli, il problema evidenziato prima, la storia che in un battito di ciglia la mia chioma si allunga all’improvviso e senza aspettarmelo. Mia nonna, la Pina, la sola cuoca stellata che riconosco, una sorta di Cristiano Ronaldo della cucina, per pranzo non aveva fatto né le lasagne né i tortellini e manco le sue tagliatelle, che sono ingorde e deliziose, a dir poco fenomenali, roba che i tre di Master Chef ne hanno così da pedalare anche solo per guardarla da lontano. Comunque la Pina aveva messo in tavola la pastina. E io, che allora ero punk, la magnavo infilandoci dentro le ciocche dei miei rinomati capelli. Lei, ovviamente, s’incazzava dello sgarbo e mi tirava una serie di pizzicotti, a ragione se il dado è fatto in casa, di gallina e col soffritto, gustoso e meraviglioso, quasi un dono di Natale, il figlio perfetto nato grazie alla fusione di tradizioni culinarie millenarie. E me ne ha dati tanti, intendo di pizzichi sulle chiappe e nelle orecchie, che io da allora la pastina l’ho vista come una sfiga mortale e non l’ho mai ingurgitata più. Pensavo fosse un’usanza di un vecchio mondo saggio, altero e masochista, che a papparmela si rischia di finire coi lividi all’ospedale…
Poi però oggi il mio grande amore stava male. Era mattina, il mondo mi chiamava, io russavo e non sentivo il cel, perché, se dormo, dormo, e divento uguale uguale a un cinghialetto toscano, di Siena o della Maremma, posti paradisiaci che fanno riposare. C’era che Vinicio, il mio bimbo sedicenne, vomitava a scuola, che poi ho scoperto era quasi verde come Hulk tanto aveva intorno l’influenza stagionale. Poi la tipa del Bar Bicerì mi ha svegliato suonandomi al campanello come un’ossessa, poi ho riattivato il mio telefono, poi ho recuperato Vinicio Nikolaj Bonfanti, poi l’ho coccolato a sferlo.
Gli ho chiesto “hai fame?”, mi ha detto “non tanto, giusto se mi fai una pastina…”. E ho chiamato il tutorial, la sua mamma, che ora è lontana. Lei mi ha detto del dado vegetale, dell’acqua da bollire e degli anellini Barilla da comperare. Ho seguito le istruzioni e mi è venuta la solita pasta ai quattro formaggi, bona bona e al radiatore, la sola cosa che so fare, mai leggera, che stinca, ma che alla fine fa dimenticare ogni male. E, come allora, i miei capelli lunghetti si sono infilati in mezzo, dico nel piatto, tra il brodo vegetale. Ma non è importante: Vinicio sta meglio, gli è scesa la febbre e poi anche oggi sono riuscito a sfamarlo. E io non odio più così tanto né le pastine né le mattine, del resto in questo momento ci sono in mezzo ed è bello che sia così.
Matteo Bonfanti