A me dell’Atalanta di quest’anno fa godere soprattutto Ilicic, il contrario della bellezza, uno brutto forte, con quelle gambette lunghe lunghe, quel fisico senza muscoli, quel correre strambo forte, un po’ alla Garrincha, uno che pare sia sempre sul momento di perderla invece ogni volta ce l’ha incollata ai piedi e all’improvviso fa cose che paiono impossibili, tipo la rete di oggi, che manco quel giocoliere di Maradona, dico lo stop, impossibile da pensare per chi come noi ha giocato al pallone, con la difesa avversaria, oggi quella del Lecce, che è formata da gente normale, priva di quella straordinaria e insensata immaginazione, che va tutta dall’altra parte aprendogli un’autostrada dove la sola cosa possibile è fare gol.

Josip Ilicic, 32 anni, è il primo genio di cui non mi perdo una partita, mi piace troppo. E io da ragazzo in un paio di stagioni ho giocato nel suo stesso ruolo, da attaccante esterno, ed ero pure bravino, che i dribbling mi venivano facili facili. E allora un giorno era venuto a vedermi mio zio Franco, uno tanto tanto talentuoso, arrivato fino a San Siro con la maglia del Lecco. E mi ricordo le sue parole dopo la partita, una delle mie migliori, un gol, un assist, quello che mi marcava espulso perché non sapeva cosa fare. “Sei bravo, ma fai sempre la cosa che tutti si aspettano, un campione fa il contrario”. Pensavo fosse una cazzata, ora mi rendo conto che stava parlando di Ilicic, che all’epoca chissà dov’era, un bimbetto sloveno di otto anni, che da quanto ho letto faceva un sacco di sport, il tennis, il basket, la pallavolo, insomma tutto tranne che il calcio. Ha detto Josip, in una recente intervista, che sarebbe potuto diventare un professionista in qualsiasi disciplina e io gli credo, proprio per via di quella rarissima immaginazione che nel pallone immobilizza l’avversario perché, poverino, di fronte a uno come Josip, che non ti fa capire una mazza. E penso che tanto della sua incredibile esplosione, le diciassette reti di questa stagione, un bottino inimmaginabile per lui che di lavoro fa dieci assist a partita, dipendano dal Gasp, il primo mister che ai suoi uomini ripete come un mantra di tentare la giocata e oggi non solo allo sloveno o al Papu, un altro fuoriclasse, ma persino a Palomino, centrale difensivo che a un certo punto faceva il mediano con colpi da stropicciarsi gli occhi.

Un genio ha bisogno di essere libero, di fare lanci, dribbling, tunnel, colpi di tacco, di giocarsela con mille e passa tocchi se serve ad andare in porta. L’Atalanta di quest’anno, la macchina meravigliosa del record di gol in Serie A, quella delle quattro pere al Valencia, proprio per questo motivo ha un valore rivoluzionario. E’ il superamento, finalmente totale, di quella estenuante gabbia tattica che è stato il tiki taka. E’ il calcio che è uno spettacolo quando ha al potere la fantasia.

A undici anni ero uno che tentava la giocata, sempre, in un provino mi prese il Lecco, arrivai nel club bluceleste, che allora era in Serie C, e tecnicamente ero tra i migliori, la fascia in lungo e in largo, il terzino e l’ala costretti a inseguirmi. Ma non giocavo quasi mai. Il mister, tale Andrissi, di bambini estrosi come me non sapeva che farsene, per lui il pallone era sempre e solo a un tocco, col disegnino sulla lavagna su dove dovessimo metterci e guai a spostarci di un metro, e poi s’incazzava che arrivavo con le scarpe sporche, senza le mutande di ricambio, chiedendo ai compagni di prestarmi l’accappatoio. Non è colpa sua se non sono arrivato a giocarmi col Milan la finale di Champions, non ero così portato e poi quelle menate scelsi di sorbirmele per un solo anno. Resta che credo che dalla metà degli anni Novanta il calcio in Italia sia stato questo, oltre a un’impressionante fisicità, l’estrema  disciplina, che se fuori dal campo forse ha pure un senso, dentro al rettangolo di gioco toglie la bellezza del pallone.

La speranza per il nostro movimento, quello che ha regalato ai nostri appassionati Rivera, Baggio, Totti e Del Piero, è questa Atalanta, con un genio come Ilicic finalmente libero di fare quello che gli pare grazie a un mister straordinario come il Gasp, il solo negli ultimi vent’anni convinto che l’obiettivo sia fare gol quando gli altri pensano sia non prenderne.

Matteo Bonfanti