Mi alzo con addosso tutta la forza del mondo, probabilmente per l’amore che mi dà il mio gatto, Gionny, che anche questa notte è arrivato a limonarmi duro mentre dormivo beato sul divano rosso fuoco mentre in tv andava in onda come sempre il quarto episodio di The watcher. Decido che è venuto il momento di dare una svolta alla mia vita, disinfestando la mia auto, la Pandona Aranciona a metano, che ultimamente puzza di morto per via di tre melograni che Ernesto mi aveva dato nel maggio del 2018 e che è ormai diventata il solo argomento delle serate con i miei figli, Vinicio e Zeno, che attribuiscono ogni loro acciacco appunto alla mia macchina. “Lì dentro ci sono la scabbia e il colera”, sostiene Vini, “prossima volta che ci porti all’allenamento, finiamo tutti e due ricoverati al Papa Giovanni”. Severo, ma giusto, il ragazzo, anche se io non penso che sia quello il principale problema dello stato degenerativo in cui si trova la mia vettura, piuttosto la questione da risolvere è quella legata al tappeto di Tennents che si è creato in questi lunghi anni di aperitivi in maghina e che mi permette di trasportare solo passeggeri che praticano lo yoga, gli unici che riescono a sedersi facilmente con le gambe incrociate, evitando così di tagliarsi i piedi con i vari pezzi di vetro di colore verde che si sono depositati sopra i tappetini. Ci rifletto da qualche mese e ho pure chiesto un po’ in giro, non ho manco un conoscente appassionato di discipline orientali. Sicché mi metto di buzzo buono e inizio a smaltire i rifiuti, differenziando. Dopo un’ora di duro lavoro, stando attento che nessun vicino si accorga dell’incredibile numero di birre nel bidone del condominio per non dargli l’ennesima prova del mio discreto alcolismo, inizia a parlarmi il mio personale diavoletto, galvanizzato dal mio recente soggiorno nella splendida, ma sporchissima, Napoli. “Ma che minchia fai? Ma quanto tempo stai a buttà? Accattati un bel sacchetto, infilaci dentro tutto e vallo a lasciare sul sentiero della Maresana… Fatti furbo, guagliò, dieci minuti e hai finito. E te la cacci zitto e mosca”. Appollaiato sulla mia spalla, il piccolo Satana mi tenta, anche perché in ufficio ho giusto quel paio di giorni di lavoro arretrati. Fa la vittima, qualcosa che a me smuove di brutto, tema, guarda caso, dell’ultima seduta col mio psicologo, Ze Ze, che continua a ripetermi che devo piantarla di sentirmi il carnefice di chiunque, scocciatori compresi. Dice il demonietto: “Miiiii, bravo, bravo, bravo… Fai tanto quello che Napulé è il massimo dei massimi, che i Quartieri Spagnoli sono uguali uguali a Macondo, poi, quando puoi trasformare un minuscolo pezzetto di Bergamo nella città partenopea che tanto ami, non lo fai. Vergogna, sei un vile. Non mi vuoi bene. E getta dal finestrino sta munnezza e fai l’italiano verace con la passione forte che sprizza da ogni parte”.
Sono lì e lì per crollare. Faccio le scale di casa e mi metto alla ricerca di un sacchettone gigante per infilarci il resto della spazzatura alla cazzo quando mi appare Gori, il mio sindaco, con l’aureola e la tunica da profeta biblico. San Giorgio mi guarda e mi sorride. Non chiacchiera a vanvera, mi dice solo due parole: “Ti vedo”. E il cielo sopra di me diventa azzurro, le nuvole se ne vanno, spunta il sole e io mi rimetto a differenziare per un’altra oretta col sorriso sulle labbra, felice e fiero di me stesso.
Matteo Bonfanti
Nella foto: io e il Pandone dopo la disinfestazione