E così, amico mio, te ne vai pure tu. Sono tre giorni che faccio tra te e lui, senza decidermi. Ci penso e ci ripenso, ti guardo, dando al tuo corpicino esanime piccoli bacini di gratitudine. Ma ora devo lasciarti andare perché è la vita e lo sappiamo tutti e due, non possiamo fare altrimenti. E’ difficile, terribile per entrambi, che questo attimo lo abbiamo rimandato all’infinito pensando che per noi sarebbe stato diverso, ma ora il nostro tempo è finito. Dobbiamo dirci addio. Lo sai tu, lo so io che adesso ti sto spegnendo. Non odiarmi.
Sette lunghissimi anni, sei stato con me nei miei momenti meravigliosi come in quelli più difficili, a sostenermi, sempre dalla mia parte. Eri accanto a me, complice, all’inizio della pandemia. Scrivevo a mille persone, le rassicuravo, e tu mi aiutavi correggendomi le parole. E poi le tue foto, sgranate, quasi fossero poesie nella nebbia. E ti spegnevi apposta, sul più bello, appena tra le frasi iniziava a vibrare il mio cuore. Tu facevi il finto morto e io mi calmavo. Non finirò mai di ringraziarti per i centinaia di casini che mi hai evitato da ubriaco. Ma poi la tua cura è diventata un dramma, sei mesi e più passati interamente a cercare una presa in ogni dove. E il tuo viso, pieno zeppo di graffi, cicatrici ormai giganti, che manco riuscivo più a capire cosa la gente volesse da me.
E l’altro ieri sono andato da Mediaworld, nel pianto. E ho cercato di spiegare al bravissimo commesso di origine boliviana che ero in un bel casino perché ti volevo ancora tanto bene, come a un fratello, e lui mi ha detto: “Va beh, fa schifo, e tu vai da uno psicologo, io sono qui a vendere telefonini e non ho mai letto Freud, manco una riga. Deciditi che sto seguendo altri tre clienti”. E io l’ho ringraziato anche se avrei voluto tirargli una testata sul naso. E mi ha messo in mano l’Hauauai fichissimo, economico, con quattro telecamere, giovane e spavaldo, semplice, insomma col cazzo duro in ogni momento del giorno. E io mi sono fatto convincere e l’ho comperato. La fine del nostro idillio, la tua morte.
Poi ho nicchiato, fingendo che le vostre sim fossero diverse. Poi però te l’ho tolta e l’ho messa a lui, il cinese superdotato che ha pure Telegram e che ha una carica che dura un mese secco. Ma tu continui ad andare, col wifi, con l’uno per cento fisso da ventiquattro ore, mettendomi in difficoltà, quasi a dirmi che sono uno stronzo e che tu non sei un dead cellular walking. Ci sta, è lo straziante canto del cigno che sei, ma non esagerare, conosci la mia anima, sai quanto sto soffrendo, arrenditi all’evidenza, pistolino mio.
Mentre ci separiamo, vecchio mio, volevo fare chiarezza su una cosa, spiegandoti che quando nel 2018 ho detto in un articolo che avrei voluto il vecchio telefono Sip di mia nonna Chiara, quello verde merda, con la rotella dei numeri piena zeppa di pezzi di polpette, non era vero.
Ti amavo, ti amo ancora, ero orgoglioso di te. Ma ora lasciami andare, piccolo mio, Iphone 5S Vodaphone, ho voglia di andare a palpare il mio nuovo Hauauai sedici valvole con le app già incorporate e la memoria della galassia intera. Capiscimi, mancherai. E appena vado a Valgreghentino, nel mio campo, ti prometto una degna sepoltura. Sei un bravo tipo, molto presto sarai nel paradiso dei telefoni, a fianco del Samsung, lui, quello di cui abbiamo parlato tanto nelle nostre chat, il tuo meraviglioso padre che tutti noi abbiamo tenuto tra le mani.
Ciao, cucciolino, ti adoro, fai buon viaggio.
Matteo Bonfanti