Essere lì, accanto a lui, abbracciato stretto stretto, mai così avanti in quanto a strizzatine di mano, quattro nel giro di cinque minuti, con ogni santo del dio pallone che dal cielo stava tifando per me perché ero ormai a un passo dal mio record di sempre, le cinque strette del 2017, e poi rovinare tutto sul più bello nel maldestro tentativo di portargli via uno dei nani atalantini di cui lui è affezionatissimo. Tanta attesa, moltissima trepidazione per un nulla di fatto. Oggi mi è andata così, in fumo, col rigore decisivo sparato sugli spalti. Condivido il mio personale dramma quotidiano per farmene una ragione raccontando l’accaduto fin dal principio. Mi presento al pranzo dell’Atalanta in perfetto orario, le 12 e 30, fresco come una rosa per via di due caffè doppi in una mezzorata, prima al Bicerì, quindi al Gamba. Come già in altre edizioni, sbaglio la porta d’ingresso del ristorante del Gewiss. Sono in viale Giulio Cesare mentre il ritrovo è al Lazzaretto. Non sono il solo, davanti a me c’è la plenipotenziaria dello sport targato Mediaset, Lucia Blini, che poi scoprirò originaria di Calvenzano. Chiamo Marco Neri che mi svela che al Christmas Press Lunch si entra dalla tribuna opposta. Avverto la famosa collega e ci incamminiamo, facciamo due balle, è simpatica e carina, un sacco umile, le regalo il mio ultimo libro, “Mirabili vite”, mi ringrazia restando sul vago, credo perché non sappia minimamente chi io sia, se un giornalista bravino oppure una mezza sega o un imbucato che si spaccia per il direttore di Bergamo & Sport, che in realtà sono, ma non ho con me le prove. Entriamo e ci separiamo, io lascio la mia giacca verde militare dove sono seduti alcuni colleghi della mia testata ed esco a fumare per preparare in solitudine il piano “record di strette di mano”. Ho bisogno di concentrarmi, ma non ci riesco perché passano, in ordine, Giorgio Dusi di Bergamonews e Andrea Rossetti, il direttore di Prima Bergamo. Carinissimi, mi avvertono che mi leggono sempre volentieri alzandomi così l’autostima di tre tacche buone. Col vento in poppa, carico come una molla, mi siedo a tavola, arrivano a battermi pacche sulle spalle come se piovesse colleghe e colleghi che sono veri e propri mostri sacri dei media bergamaschi. Quattro di loro si fermano a commentare il mio ultimo articolo, quello legato alla sparizione dei miei documenti a un giorno e mezzo dalla mia partenza per Atene. Ridono. Apprezzo. Poi ringrazio Dio di essere fatto così male, un po’ stordito, cosa che mi porta ad essere benvoluto dalla gente che vive lungo le fertili lande orobiche. Quindi mangiamo assai e assai bene, i paccheri di Vittorio, nel frattempo chiacchiero con Fabio Manara, il più bellino tra noi, una sorta di rock star della carta stampata. Tra un racconto e un altro sui nostri figli, lui ne ha uno, io due, si arriva al momento clou, il tradizionale “fate i bravi”, discorso che Antonio Percassi fa a noi cronisti dal primo pranzo, ormai un decennio fa, sempre in modo pressoché identico. Il tema è il solito, “l’Atalanta non è mia, ma di tutti, soprattutto vostra”, con il pres che questa volta si spinge addirittura a dirci che in campo dobbiamo scendere noi, dico noi noi, noi giornalisti. Al che mi giro verso la platea e abbozzo un’ipotetica formazione tipo, col 4-3-3: Iannarelli in porta che tra i pali è buono davvero, poi, in difesa, da destra a sinistra, Fornoni, Ongis, De Sanctis e Sorrentino, mediana con Gennari, Capozzi e Mayer, in attacco, sulle ali Bucarelli II e Pirola a servire capitan Serina fermo a centro area. Io in panca, pronto a subentrare al primo malore, accanto ai giovani atalontologi già citati nell’articolo e a Sanfilippo, un bravo tipo de L’Eco.
Squadra d’esperienza, ma soprattutto di peso. Troppo. In Serie A finiremmo per retrocedere, ma anche in Terza dove non c’è una categoria successiva. La Lega Nazionale Dilettanti introdurrebbe la Quarta, probabilmente per punirci. Ci penso su, boccio l’idea del Tone e mi dirigo a grandi falcate verso l’obiettivo del giorno tirando su un nano atalantino di pezza trovato incustodito e malinconico su un tavolino vicino al bagno. Quindi vado, “pres, posso darle la mano?”, “ma certo, caro”. E sono a una stretta. Mi intrattengo con la collega Daniela Picciolo e un attimo dopo sono di nuovo da Antonio, “pres, facciamo una foto insieme?” e lui “ma certo, caro”. Ci immortalano. E gli ridò la mano. E sono a due. Faccio tre passi e coinvolgo la già citata Picciolo e la ragazza che presenta con lei un programma su Sei la tv, Giada Bettoni. Abbracciano il massimo dirigente, nel trambusto mi aggiungo e in rapida successione do altre due volte la zampa al massimo dirigente. Sono a quattro. Con noi Marco “Dalmen” Innocenti di Atalantini che aspetta il suo turno per la sacra stretta del Tone, io sto nei paraggi per approfittarne e arrivare in un men che non si dica a cinque strizzatine, eguagliando il record del 2017.
E lì crolla tutto. Una ragazza dello staff mi vede col nano in braccio e mi dice: “Il nanetto resta qui… Lascialo giù”. Faccio orecchie da mercante, tenendolo al petto come un figlio. La situazione diventa via via più tesa. Interviene Romano Zanforlin, direttore commerciale nerazzurro: “Bonfanti, molla lo gnomo. E’ nostro. Se ne vuoi uno tutto per te, vai a prenderlo allo store. Hai il dieci per cento di sconto…”. Faccio gli occhi dolci, ma inutilmente, lui è gentile, ma fermo: “Ridacci lo gnometto”. Cedo e glielo passo. Mi giro e Percassi è andato, una beffa. Addio al record di strette a quella mano bellissima, dalla morbidezza imbattibile, che potrò stringere di nuovo solo tra un anno, nel dicembre del 2024. Mi sa che l’unico modo per consolarmi è andare in centro a comperarmi un nano.
Matteo Bonfanti