Pioggia, covid, sole, cuore e amore, le ultime tre parole che devono stare tutte insieme, mia madre, la Valeria, mio babbo, Marco, i loro compagni, Ernesto e l’Angela, i miei quarti, tutti i miei sbagli, quindi il mio psicologo, Ze Ze, che mi riceve il giovedì pomeriggio a Nembro, la mia gente che mi ama regalandomi la fortuna di avere più di una manciata di persone che mi vogliono bene, il Gasp, che è il mio lavoro e che pareggia con squadre molto lontane da qui, misere e miserrime. E il Papu, sempre e per sempre, a casa dopo avere fatto la nostra storia, col bisogno che abbiamo un sacco della sua fantasia, quella di un argentino nato sotto il segno dell’acquario, il 15 febbraio, proprio come me, ascendente leone, sicché un bel casino di dolcezza e di orgoglio.
Dicevi: “Senza perdono non si può andare avanti”. E sono due giorni, amore mio, che la tua frase è nell’anima mia, la incontro ogni volta, una dozzina di momenti al giorno.
In ordine di apparizione, come fossero i titoli iniziali di un film di successo, non il mio, piuttosto la biografia di Brad Pitt o di Kurt Cobain, biondoni che mi piacciono da matti.
Allora parto, inizio con la pioggia che da questa mattina mi bagna la testa mentre sto arrivando in redazione. Da bambino era ogni volta una sfiga, che a Lecco pioveva undici mesi all’anno mentre qui e ora, a Bergamo, in via Santa Caterina, cade poco, mai abbastanza, e quando lo fa, la sento come una liberazione. Capita come questa sera e mi immagino porti via il coronavirus, ne abbassi i contagi, ci aumenti la libertà per me e per i miei figli, barricati in questo nostro appartamento. L’acqua senza avere l’ombrello uguale uguale al nostro giorno, il 25 Aprile o il Primo Maggio, quando si santifica la nostra liberazione dai nazifascisti e dalle loro cazzate delle razze, dei bianchi e dei negri, dei gay e degli etero, del dividerci come stronzi, che poi siamo tutti uguali, felici e tristi, grandi e piccolini ed è solo il cuore la misura. Ho perdonato, non i fasci, quelli mai, dico la pioggia, che a Lecco ero piccolo, arrivava sul campo di pallone e avevo un sacco freddo. Adesso la amo e non c’è niente che non va.
Nella lista c’è poi il trio della mia vita, sole, cuore e amore e stendo il mio solito velo pietoso, perché è strettamente personale e poi la vita è troppo corta, come diceva John Lennon, e non ho tempo per consegnarmi a una coccola sola, facendo la guerra con le altre mille persone che per vivere hanno bisogno di farmele per stare in pari perché mi hanno visto e gli è venuto il progetto di farmi stare bene bene. Tu mi capirai che sei figlia dei figlia dei fiori. Mi sto accettando nel casino e non mi mangio più il fegato come quando andavo all’oratorio da Padre Giulio. Mi sono perdonato, piuttosto pensare a un mondo che, quando noi due ci incontriamo, ci faccia almeno ridere.
Arrivano i miei quarti, uno è la Valeria, mia mamma, l’altro è Ernesto, il suo meraviglioso compagno. Sono a Valgre e stanno facendo da mangiare, mia mamma stende la pasta dei tortellini di fronte a un vecchio film giallo, Erni è tra la fiducia in senato e il pesto da invasettare per il frigo giù in cantina. E sono quella parte di me, il sorriso e la serenità, il non c’è niente che non va perché il paradiso è già tutto qua, in questa terra che si chiama mondo. Ho altri due quarti, mio babbo, Marco, e la sua donna, Angela, forti e irrequieti come me appena alzato di mattina. E mi fanno mille appunti su come scrivo e mi aiutano a trovare un centinaio di parole nuove, che non siano solo gialle e celesti, ma pure bianche, rosse e verdi, come la bandiera dell’Italia, il Paese che amo. Sono i miei quarti e con me hanno fatto il loro meglio, anche sbagliando, pur sbagliando io con loro, e l’ho capito, e appena posso corro a trovarli, per provare a essere un uomo migliore ascoltandone l’esempio, l’essere sempre e per sempre dalla stessa parte.
Di Ze Ze, il mio psicologo, e della mia gente, i presidenti e i calciatori del pallone, la storia è pressoché uguale, che in questi anni a loro mi è capitato addirittura di non sentirne i consigli, fregandomene, eppure ogni volta mi aprono il cuore. Al mio terapeuta devo la bellezza di millecentosessanta euro e a questi dirigenti invece il mio lavoro e pure l’allegria della sera. Li chiamavo oggi, chiedendogli i soldi per la mia ultima follia, realizzare il cd con l’inno del pallone provinciale e mi dicevano tutti “Matti, sei fo, ma non c’è problema, ti aiutiamo”, e io stavo bene, ero a casa, tra le carezze sul petto e sulle spalle, felice, come sempre perdonato del mio non essere mai e manco per un attimo normale.
Questo è il senso, ogni esempio, amore mio bello. Dici che il segreto è il perdono, che è un diamante per sempre come dicono nella pubblicità su Canale Cinque. E io oggi ci ho pensato, accordandomi con te. L’avevo accanto durante l’Atalanta inchiodata a Udine, perché mancava il Papu, la sua fantasia, i suoi dribbling, i tunnel all’avversario, il pallone che il suo piede mette nell’angolino quando meno te lo aspetti. E io, che tengo al Milan, ma che per la mia Bergamo martoriata e colpita al cuore vorrei l’anno prossimo lo scudetto sulla maglia della Dea, pur non sapendo un cazzo di quanto accaduto quel giorno in quello spogliatoio, mi domandavo solo questo: ma il Gasp, che è l’allenatore più bravo al mondo, non lo può perdonare, che così a giugno diventiamo campioni d’Italia e facciamo la festa della nostra vita dopo tutto questo immenso e interminabile dolore?
Matteo Bonfanti