Quindi io, tirando le somme, ho cresciuto due figli comportandomi più o meno nello stesso scellerato modo, sostanzialmente confondendoli ogni giorno su cosa possa essere chiamato bene e su cosa, invece, venga definito come male. Uno, Vinicio, 16 anni, il grande, non mi ha creduto ed è un ragazzo retto, assai in gamba. L’altro, Zeno, 14 anni, il piccolo, si è innamorato fin dal principio del vento ostinato e contrario che di sera portavo in casa, diventando soprattutto un bel bigoletto. Tenero, va detto, ma poco incline alle regole, tipo quella dell’orario di scuola, alzarsi, fare colazione, lavarsi i denti, prendere la bici e arrivare al Liceo per le otto. Io non ce l’ho fatta mai, troppe cose da fare in troppo poco tempo e in un momento del giorno troppo faticoso. Lui, identico, entra in ritardo, fingendosi sconvolto per via di un incidente del pullman che arriva da San Paolo d’Argon. Che non prende in quanto abita a Bergamo, per di più a cento metro esatti dalla scuola che frequenta con alterne fortune. Tutte cose che facevo anch’io a quei tempi là e che lui ripete, sentendosi un genio della truffa, ignorando che noi Bonfanti siamo ritardatari da almeno quattro generazioni e di balle ne abbiamo inventate a iosa, alcune rimaste storiche.
Ma il tema non è la questione di cellule, piuttosto quanto lui, come me, sia tendente alla minchiata famigliare dimenticandosi un minuto dopo di avere inguaiato i suoi cari. Questo in generale, in particolare la vicenda è il mio telefono. Mesi fa, in estate, quando ogni squadra di calcio si presentava, una mattina, sulla cover del mio cellulare, senza avvertirmi, ha disegnato una falce e martello grande e grossa col pennarello indelebile. Ora io, che son sbadato, ogni sera andavo a fare le foto a presidenti, staff, giocatori, accompagnatori, cazzi e mazzi. Li inquadravo, li immortalavo e poi li vedevo che cambiavano, diventavano improvvisamente abbastanza scettici, col punto di domanda sulla faccia, tipo: “Ma questo qui di che banda è?”. L’arcano si è svelato quando un massimo dirigente molto mio amico mi ha detto: “Matte, solo una cosa, il calcio è di tutti… Perché sponsorizzi ogni volta il comunismo, che, tra l’altro, non è che in questo momento sia molto in voga?”.
Non mi sono incazzato con Zeno, sono di sinistra, lo sanno tutti, anche se a quarantacinque anni suonati non sono più rosso rosso, ma rosa tendente all’azzurro, perché tanti sono i buoni pure dalla parte di là, tre dei miei cinque migliori amici, la maggioranza di chi sta in alto nel mio cuore. Ho, invece, bisogno di parlare a Zeno dell’altro grosso numero che mi ha fatto, ossia Giroud nudo come mamma l’ha fatto che mi compare quando qualcuno mi chiama. Due giorni fa ero a una cena con un sacco di gente e mi sono arrivate tre telefonate, ho risposto e in altrettante occasioni è comparso ai presenti il bellissimo culo dell’attaccante del Milan e della nazionale francese. Anche lì, come all’epoca della falce e martello, ho avvertito un leggero cambio di comportamento in chi mi stava accanto. Ero con gente al di sopra di ogni sospetto, del calcio, persone che il razzismo non sanno minimamente cosa sia. Eppure uno di loro, dolcemente, mi ha detto due parole: “Ok essere gay, è stupendo che tu non te ne vergogni e ne sia fiero, ma perché rimarcarlo così tanto in un momento che è solo dedicato al pallone?”.
E mi sono accorto della mia foto. E ho pensato: “Vado a casa e lo sciolgo nell’acido”. Ma poi, tornando, volevo riempirlo di baci perché mi colora sempre i giorni.
Matteo Bonfanti