di Matteo Bonfanti
Raramente racconto ai miei figli cosa mi piace, mai le idee che mi muovono. Conosco i salti che fanno le generazioni e in più c’è l’esperienza: il vestito di mio padre mi è sempre andato stretto, me l’ha regalato con le lacrime agli occhi, l’ho messo una volta, da ragazzo, mi sono accorto che non ero a mio agio, da lì l’ho lasciato ad ammuffire nell’armadio. Sono un uomo, per di più un musicista, e ho la mia colonna sonora, le dieci canzoni che scandiscono ogni mio attimo: i cantautori, i Rem, i primi Radiohead, la voce di Cobain che si spacca cantando a squarciagola il ritornello di Smells like teen spirit, Ben Harper, John Lennon, David Bowie. Vinicio, il mio ragazzo che ormai va verso gli undici anni, ha le sue note, quelle di chi ha la sua età: Fedez, J-Ax, Gabbani, Rovazzi, ultimamente Bello Figo, poi, moltissimo, il rapper di famiglia, mio nipote Pietro che canta poetico e incazzato nero l’insostenibile pesantezza del Nord Italia. Io sono su altro, siamo distantissimi ed è normale coi nostri tre decenni di differenza.
Così ieri sera è stato strano. Siamo andati a letto e lui e suo fratello Zeno hanno voluto la solita storia, una vita grande e grossa dall’inizio alla fine. Avevo in mente Garcia Marquez, i 3240 pacchetti di sigarette fumati per scrivere Cent’anni di solitudine. Ho iniziato. Con un occhio chiuso e l’altro aperto, Vini mi ha bloccato. Mi ha detto: “Papà, vorrei ci parlassi di Francesco Guccini. Ho sentito la Locomotiva, era bellissima”.  La sua richiesta mi ha esaltato, quattro note biografiche tra la via Emilia e il West e sono partito a fargli uno sperticato elogio dei moti rivoluzionari anarchici nei primi anni del secolo scorso, tre minuti e parevo la reincarnazione di Karl Marx: “Dovete ribellarvi all’ordine costituito, piccoli compagni miei. La vostra generazione deve fare la rivoluzione perché qui da noi è tutto ingiusto: pochi hanno tantissimo e troppi non hanno niente”. Mia moglie, che era in bagno a farsi la doccia, mi ha tirato un urlo: “Matti, piantala di gridare! Stai facendo un comizio? Abbassa la voce che svegli il vicinato”.
Mi son sentito scemo, sono tornato in me, normaloide, ho guardato Vinicio e Zeno: abbracciati nel lettone, dormivano da tempo. Per fortuna. Il loro sonno profondo mi ha evitato l’errore più grande che può fare un padre.