Oggi siamo in zona rossa, che significa che il caffè doppio del mattino devo berlo appena fuori dalla porta del Bicerì. E’ la grossa differenza rispetto a quando siamo gialli, che invece posso sedermi al tavolino e passare la mia oretta di relax a leggermi i titoli e le didascalie della Gazzetta dello Sport. Della Bergamo arancione so poco, lo ammetto, penso c’entrino i negozi di scarpe, ma potrei anche sbagliarmi, confondermi con quelli che vendono l’intimo o con le librerie o con i centri commerciali. E’ Santo Stefano, che fino a un anno fa lo vivevo un po’ sul divano e un altro po’ al Galgario, che sta a cento metri esatti da casa mia. Era la giornata che passavo a suonare pessime canzoni negli interminabili aperitivi pomeridiani con i miei amici e con i senzatetto. C’erano la musica e le bottiglie di Prosecco lasciate a metà nel pranzo di Natale, c’erano gli avanzi di arrosto un po’ induriti da mangiare con le mani, c’era da ridere e fare casotto.
Ora c’è il covid e tutto è diverso. Dopo due giorni con la famigghia, fuori dalle mura in sole quattro occasioni e sempre accompagnato in stile cane che fa il giretto (per un totale di 1 ora, 56 minuti e 32 secondi), facendo la bellezza di 849 tortellini, 612 di carne, 237 vegetariani, sono venuto in redazione a scriverne.
Il nostro Natale è stato bello, è stato piccolo e senza pretese, un sacco dolce e colorato dei colori dell’arcobaleno. Ho fatto cose che non facevo da trent’anni, mi ci sono ritrovato in mezzo per via che i miei ragazzi hanno quell’età lì. A dodici anni, Zeno, e a quattordici, Vinicio, il tempo passa tra una Tombolata e l’altra coi soci, interamente o quasi finanziata dal proprio babbo, che sono io e sono da spennare. L’importante sono le sfide, le rivincite e una lunga serie di belle a Fifa, attaccati per pomeriggi alla Play Station. Si può stare a vedersi il primo tempo di Una poltrona per due mentre tutti intorno fanno rumore. E ci si gode il filmissimo abbracciati sul divano, ieri Boyhood, scoreggiando a turno per darsi la colpa e cambiare per un attimo gli addendi, con Vinicio, mio figlio grande, che con me si incazza come una belva, tirandomi cartoni fortissimi sul braccio ogni volta che supero il limite consentito dalla sua alta moralità.
Mi ha menato pure ieri pomeriggio, che siamo andati nella chiesa fuori da casa nostra, perché avevo in mente le parole di un racconto strappalacrime sull’anno orribile di tutti noi lombardi, ma prima dovevo rubare Gesù Bambino dal presepe per qualche minuto per fare la foto da mettere sul blog. Mi sono messo, gli ho chiesto di farmi da palo mentre stavo eseguendo nel dettaglio i preliminari del mio piano e avevo già spostato tre pecorelle dalla zona Re Magi alla zona San Giuseppe, giusto per creare un po’ di confusione da attribuire a degli imprecisati vandali negazionisti. Mi ha detto: “Smettila o te le do”. Non ho smesso, ma mi sono giustificato: “Prendo Gesù Bambino, faccio la foto e poi rimetto a posto”. Non è bastato e me le ha date, attirando l’attenzione del sacrestano e mandando tutto a puttane. Ci sta. Costanza, sua mamma, l’ha cresciuto bene bene e non ci sono cazzi. In questi casi non fa il mio complice. Così ho desistito.
Al di là di questo, non c’è niente che nelle nostre feste non è andato, c’è stato un attimo che a casa nostra c’erano le sei persone che più mi sono state vicine in quest’anno che per me ha significato tanto tanto per via del mio libro, Il Vestaglietta, la mia prima opera che è piaciuta un po’ a tutti dopo una serie di incredibili buchi nell’acqua tra cui due cd, col secondo, Finto Jazz, che una barista a cui l’avevo regalato, dopo averlo ascoltato attentamente, mi aveva detto: “La musica è bellissima, ma la tua voce rovina ogni brano. Non puoi farlo cantare a qualcun’altro?”.
Capitolo chiuso, perdonatemi le continue parentesi, ma è tanto che sono al mondo e mi vengono ogni volta mille storie da raccontare e poi è due giorni che non scrivo ed è il vizio più grosso che ho. Comunque ho letto tante persone che hanno sentito nel cuore la stessa sensazione, la felicità del nido, che, forse, gli altri anni che eravamo in trenta e passa al ristorante, si era smarrita un pochino. Detto, quindi, che c’è del bello, resta, forte, la voglia di rimettersi a fare casino appena questa cosa passerà, che sento che è quasi finita. Mi mancano un sacco il pallone coi soci, quello dei ragazzi del calcio bergamasco, lo stadio qualche volta, i concertini, prendere il Pandone Arancione a Metano e correre giù a Bologna a dare dei baci sulle guance a mia nonna, la Pina, e alle mie zie, la Tella e la Cri. Ma so che accadrà presto presto e quindi ne sono già un sacco felice.
Matteo Bonfanti