Premessa necessaria: Tullio Gritti mastica calcio come Gian Piero Gasperini, è simpatico e anche molto soft quando si tratta di recriminare, vedi fallo di Praet su Djimsiti all’origine del gol-apripista di Sanabria e “rigore inesistente” del 2-2 sul contatto tra Freuler e lo stesso paraguaiano nel 4-4 rocambolesco nel recupero col Torino, anche perché la voce soffiata e vibrata del responsabile tecnico è sempre destinata a scatenare un putiferio. Nondimeno, la conferma della delega “fino alla prossima sconfitta” per le conferenze stampa postpartita del titolare della panchina al suo vice a decorrere dal ritorno alla vittoria, ahinoi effimero, di Venezia, potrebbe essere suscettibile di interpretazioni un po’ malevole. Non per zavorrare ulteriormente dall’esterno la rincorsa dell’Atalanta al sesto giro di giostra filato in Europa, già appesantita di suo dall’altalena di risultati nella seconda metà di stagione, ma perché normalmente a metterci la faccia e pure le parole a commento è chi sta sulla tolda di comando. A meno quattro (Salernitana, Spezia, Milan ed Empoli) dal gong il silenzio del capo riconosciuto, già aduso a chiudersi a riccio alla vigilia delle sfide, non può passare in cavalleria. 

Così decidendo e facendo, invece, il profeta del calcio nerazzurro dall’estate del 2016 a oggi non fa altro che dare adito ai rumors, peraltro smentiti seccamente dai vertici societari e mai confermati nemmeno per scherzo dal pur possibilista e sibillino interessato (“A bocce ferme ci si siede e si parla se non rompo troppo le scatole…”), circa l’approssimarsi della fine di un rapporto che i tifosi vorrebbero eterno. Di eterno, del resto, da queste parti non c’è stato nemmeno il Papu Gomez, che era il nume tutelare della ninfa del pallone in coabitazione col suo mentore, salvo essersi escluso da solo anche per demeriti propri, ovvero l’essersi ammutinato in campo, per di più in Champions contro il Midtjylland, decadendo dalla scomoda particina di secondo gallo in un pollaio che non poteva permettersi una chioccia di troppo.

Lungi dal voler affermare che il vero artefice dell’internazionalizzazione dei nerazzurri, sdoganati da provinciale dagli orizzonti ristretti al pari dei sogni tra una sponda e l’altra del Morla a outsider bella e tignosa di livello europeo, voglia scantonare dalle responsabilità cui non s’è mai sottratto, la sua decisione di non comunicare al di fuori dello spogliatoio e dell’area tecnica lascia comunque perplessi. L’obbligo, per carità, non esiste, mica siamo nella Uefa che impone i protocolli altrimenti sono guai e multe. Ognuno fa quel che gli pare, specie se il club che lo paga è d’accordo o gli dà carta bianca in materia. Ma a celebrare i riti irrinunciabili del prima e del dopo devono essere i protagonisti, secondo una norma non scritta fra le tante di un mondo complesso, eppure d’impronta ancora popolare come il pallone, fonte di passione a dispetto della televisivizzazione che rende i tesserati alla stregua di vedette e starlette nonché dell’affarismo sempre più evidente in capo alle quote azionarie, ai nuovi equilibri dirigenziali e proprietari.

Stephen Pagliuca, il co-chairman, primus inter pares nella vicenda a due col presidente Antonio Percassi, da comproprietario dei Boston Celtics sa bene che nella Nba nessun coach o giocatore potrebbe rifiutarsi di dire la sua. Sempre che l’Atalanta, americana al 47,3%, non sia volutamente sempre più bergamasca nei fatti. I soli a dover contare e parlare, per una razza come la nostra, dedita alla pratica e all’apologia dell’etica del lavoro. Il problema è che i fatti non stanno parlando, o almeno hanno perso le corde vocali, visti i 17 punti in 15 partite nel girone di ritorno e le sole 4 vittorie al Gewiss Stadium (19 punti su 55) in campionato (Sassuolo, Spezia, Venezia e Sampdoria) ad aggiungersi alle altrettante tra Champions (Young Boys), Europa League (Olympiacos, Bayer Leverkusen) e Coppa Italia (i Lagunari). E non parlare europeo al prossimo giro di corsa significherebbe una sola cosa, il ridimensionamento. Altro che big aggiunta.
Simone Fornoni