Ok, io scrivo e devo essere politicamente corretto. Ma leggendo la storia di Silvia Romano mi vengono solo pensieri in direzione ostinata e contraria. Come tutti, rispondo a un pubblico, il mio, piccolo piccolo, che non sono né Roberto Saviano ma manco Isaia Invernizzi coi suoi quotidiani grafici in tecnicolor sulla propagazione del virus nella Bergamasca. Mi leggono sostanzialmente poche anime, ma ci sono, esistono, sempre quelle, affezionate a come metto ogni volta in fila le parole. Per la gran parte sono donne buonissime oltre i sessantacinque anni, bravissime a cucinare, spesso amiche di mia mamma, che mi sponsorizza a destra e a manca, che come lei votano il Partito Democratico dopo essere state da ragazze delle giovani e stupende sessantottine, apprezzano il nostro premier, Giuseppe Conte, anche perché è bellino forte e pure parecchio gentile, e sognano un mondo senza ingiustizie e privo di confini.
Ora io ho letto la storia di Silvia, le sue parole. Che raccontano che nella prigionia nessuno le ha fatto del male. La ragazza italiana si è convertita all’Islam e adesso si chiama Aisha e vuole fermarsi qui giusto un attimino per poi tornare in Kenia. Bene, io come tutti passo più o meno la metà della mia giornata sul mio posto di lavoro, nel mio caso la redazione. E in ufficio c’è Marco, che sa un sacco di cose ed è un fumatore incallito identico a me. Più o meno una volta all’ora ci facciamo la pausa sigaretta, dove io divento il suo personale discepolo e lo interrogo sulla questione del giorno. Ora dice: “E te credo che è diventata musulmana. Si chiama sindrome di Stoccolma. E’ come se a te venissero a rapirti i vegetariani. Finirebbe che non mangeresti più la carne. Ma manco una salamella, neppure una costina. E inizieresti a menarla persino a chi si papperebbe un panino con la mortadella di fronte a te”.
Premesso che i vegetariani sono brava gente, che non ricordo abbiano portato via a forza nessuno, e ci tengo a sottolinearlo per evitare casini con Vinicio, mio figlio, che è uno di loro, torno a Silvia Romano e alle mie lettrici, felici per la liberazione della ragazza, sostanzialmente tutte allineate col pensiero di Marco, il mio guru.
Dovrei felicitarmi anch’io, per senso di appartenenza, ma non riesco perché a me la ricostruzione psicologica non convince, almeno non del tutto. E mi vengono dubbi populisti, che faranno incazzare mia mamma e le sue amiche, ma che vi espongo perché me ne vergogno un po’, e, magari, se mi insultate quell’attimo, mi passano e torno in me.
Eccoli, in ordine d’importanza: ma se fosse invece che siamo andati giù in Africa a romperle i maroni all’inizio di una nuova vita fighissima? Se fosse che i suoi rapitori fossero una serie di bellocci muscolosi, tatuati e anche simpatici, che le facevano un sacco di scherzi divertenti portandola a fare il bagno nel mare? O se, più semplicemente, Silvia si fosse innamorata di uno di loro con quello che comporta la conseguenza dell’amore? Qualcuno l’ha avvisata che stavamo andando in Africa a recuperarla con una valigia zeppa di soldi? E se sì, lei al telefono era felice o triste? La nostra intelligence è sicura sicura che questi qui fossero così brutti, sporchi e cattivi o ce la stiamo inventando come quando ci raccontiamo al bar che i cinesi si mangiano tra di loro una volta che muoiono?
Silvia, ora Aisha, ce lo dirà. Lo farà sicuramente tra un po’, passata l’emozione, la probabile sindrome di Stoccolma, l’innamoramento che forse l’ha colpita quando era in prigionia. Di tutta questa vicenda la cosa bella è che a Bergamo finalmente ci scanniamo su altro, che dopo giorni il tema non è più il corona. Significa che l’emergenza sta passando e che tra poco torneremo a vivere senza più sentire sempre addosso l’angoscia assordante di questi ultimi due mesi.

Matteo Bonfanti