Fine anni Ottanta, io manco dieci anni, forse otto, forse nove, insomma piccolo, ma non piccolo piccolo, inverno pieno come solo a Lecco a quei tempi là, lunghissimo e con quel gelo bastardo dal lago, forte e nelle ossa. Così Chiara, mia sorella, cinque anni più grande di me, gli occhi azzurri, bellissima, va detto la mia splendida mammina, una fatina a cui aggrapparsi nel caos di due genitori stupendi, colti, forti, giovani, fisici e politici, comunisti, tra i primi a separarsi in Italia: “Matti, si prende il pullman e si va in Falghera”. Che era andare il martedì, il giovedì e il sabato da mio papà, sopra sopra Acquate, in una frazione fredda e di montagna, un posto tristissimo, in culo ai lupi. Due autobus da cambiare, il quattro e il sei, che erano rarissimi, uno all’ora, con l’autista preso male perché “non aveva su gente”, che capitava neppure si fermasse alla fermata di via Col di Lana. Spesso ci vedeva alla pensilina e tirava dritto, fottendosene altamente di noi due. “Dai, Chia’, oggi non andiamo, sono le sei, è già tardi. Facciamo domani, che ho ancora i compiti da finire e poi ho voglia di giocare al Subbuteo”. “No, Matti, preparati. Si va, è il giorno suo e il papà ha bisogno di noi”. E Chiara, che, pur vedendola poco, se la sento, mi è capitato oggi, mi dà addosso la felicità, non voleva sentire storie. “Matti, vestiti”, il suo aiuto, le carezze, i calzini bianchi, l’abbraccio, la giacca Ciesse Piumini, per lei il Monclear, la berretta, la cartella, per entrambi l’Invicta, le scarpe, le scale, il cancello bianco, un paio di dribbling a Tobi, il rabbioso cane dei vicini, i Molinari, brava gente a parte la bestia, poi la strada, la nebbia, la brina, i jeans infreddoliti, appiccicati alle gambe quasi fossero collant, la camminata fino all’edicola Malpetti, l’attesa estenuante del bus, il cambio, il viaggio interminabile, le nostre parole, le mie troppe, già allora, le sue, a quattordici anni giuste, il sufficiente e il necessario e con quel sorriso caldo, sicuro, vivo e vissuto, accogliente, “E’ nostro papà e non lo vediamo mai”, “Chiara, l’abbiamo visto l’altro ieri, chissene, dai non puoi sentirne già la mancanza, possiamo ancora tornare indietro, dalla mamma, al caldo”. L’arrivo da mio padre, per me il computer, manager, il Milan, l’Inter, Van Basten, Baresi, Gullit, Matthaus, Brehme, Nicola Berti, i compiti, i cazzi miei, per Chiara e mio papà l’italiano, il latino, interminabili parole accanto, credo rassicurazioni che il futuro sarebbe stato continuare a darsi la mano, ma non origliavo alla porta, ho sempre immaginato che tra loro ci fosse qualcosa di troppo importante, grande, grosso e controvento, non per me che ero e sono Matti o Teo, insomma il loro piccolino, pure adesso a quarantadue anni e con qualche capello bianco tra la chioma ruggine. Poi il lettone, a scoreggiare a turno per far funzionare il televisore difettoso, Chiara accanto a mio babbo, io a ridere come uno scemo, quindi le canzoni, abbracciati stretti stretti come non ci fosse un domani, lo stereo Sony, la musica per dormire, “Luci a San Siro”, “L’uomo che si gioca il cielo a dadi”, “Rimmel”, quell’altro che cammina sui pezzi di vetro, il ragazzo che crescendo mi è capitato di diventare.
Sabato pomeriggio, lei, che non è mia sorella, ma una ragazza giovanissima, femminista e di sinistra, che mi legge, prende il coraggio e mi manda un messaggio: “Sei sempre quel che sento, sei bravo, libero, l’unico giornalista dei nostri, se hai un attimo scrivi del congresso di Verona, l’idea assurda di una famiglia normale. Le tue parole arrivano al cuore, fallo, loro fanno schifo, hai tanti amici, puoi aiutare”.
E io d’accordo, bisogna spendersi col proprio talento contro i dementi fuori tempo massimo e poi io sono sopra ogni sospetto che con quella gente troglodita manco sotto pagamento, che nei ritrovi che fanno inneggiano a Dio, che, ne ho fatto di catechismo all’Oratorio dei Frati, un botto, fino alla professione di fede, e il loro Signore credo poi sia Gesù, un bambino che è cresciuto con Giuseppe che non era suo babbo, ma il convivente di sua madre, Maria. E poi gridano patria, che io due settimane fa ho rifatto la carta d’identità per via di una querela di uno di loro e ho subito perso l’importante documento comunitario, e ho la fortuna che sono rosso rosso di capelli, e i bergamaschi mi incontrano in Città Alta e pensano sia straniero e me lo chiedono, “Are you irish?”, e io rispondo, serissimo, “Yes, we can”, che non so se c’entra, ma almeno li convinco al volo e non pensano sia tarato e abbia votato i Cinque Stelle o la Lega. Meglio passare per irlandese che per uno che alle urne ha detto di comandare il Paese a chi vede gli ufo, la Terra piatta, l’uomo nero, gli stessi che una settimana fa hanno armato con mitra e kalasnikov il cacciatore cocainomane perché difendesse Cappuccetto Rosso da un lupo ormai in via d’estinzione, leader di partiti di governo che sognano che dopo un secolo nel sonno del maschilismo più bieco la Bella Addormentata si svegli calda, le gambe aperte, e pronta a cantare felice mentre stira le camicie, dà la cera e lava i piatti. E se si lamenta, per quei due, i famosini al timone, è solo una folle isterica e per legge la si può pure eliminare. Illusi. La donna è altro, per fortuna, anche vostra.
Ma torniamo a Verona. Dicono: Dio, patria, ma anche famiglia, che io però dai dodici, tredici, ne ho sempre avute due, Vale & Erni, Marco & Angela, una fortuna per via dell’amore che mi hanno dato, che l’affetto di quattro è il doppio di due, ma pure per l’economia, che i regali sono raddoppiati, quindi per me quelli lì, Salvini, la Meloni, Fontana e gli altri, per avermi, anche solo minimamente, dovrebbero dire famiglie, al plurale, al singolare non l’ho mai provato fino in fondo e mi sa che è pure una fregata. Lo dico per esperienza, che a inizio anni Novanta i miei amici meridionali delle case rosse, le Gescal, di famiglia ne avevano solo una e a Natale erano tristi e senza il becco di un quattrino, io, invece, figlio di separati, quattro genitori, tutti fantastici, strafelice, con un botto di soldi e di doni che manco chiedevo a Babbo.
E poi quelli di Verona ce l’hanno coi gay e quindi pure con me, che se scrivo è perché ho una parte femminile spiccata e da ragazzo ho baciato con la lingua due miei amici, a caso, senza amore, e non mi ha fatto impazzire, ma neanche mi ha intristito, insomma è stato qualcosa di normale, piacevole coi brividini tutt’intorno, provate, diciamo che limonare con una donna è bellino, con un uomo è bellino, ma il confronto è con chi ti ama, slinguare pesantemente chi ti dà del bene è semplicemente bellissimissimo.
Insomma non sono per le idee della famiglia tradizionale, a Lecco sono nato, a Lecco torno ogni settimana, il lunedì pomeriggio, e tra l’altro ci arrivo sempre vinto, così, per quello che ho vissuto, quelli che in questi giorni stavano a sparare minchiate a Verona mi paiono citrulli, extraterrestri, marziani, fuori dal mio mondo. Loro, poverini, non lo sanno, ma se, diversamente da me ne conoscete qualcuno, diteglielo, viviamo sul pianeta Terra che è un posto stupendo perché non ha confini né barriere. Un giorno anche Salvini, Di Maio, i trentotto ladroni, il gatto e la volpe se ne accorgeranno. Succederà presto presto, quando non avranno più soldi da nascondere nel campo dei miracoli perché saranno finiti e non è che manchi tanto.
Dette tutte queste parole, non mi viene da massacrare i picchiatelli di Verona come faccio coi loro amici pentastellati o legaioli quando fanno le loro leggi da ebeti, scrivendo con la penna intinta nell’inchiostro dell’odio. Stavolta mi limito perché c’è Chiara, mia sorella, ritratta in quella foto di quegli anni là, soddisfatta e solare come mai, io picciriddo, lei già grandina, al circo con mio padre, in mezzo il clown, un altro bambino, forse Arnaudo, e poi la scimmia, che a me faceva un sacco paura, l’immagine che posto sta a dimostrare il terrore che stavo vivendo in quelle ore di tensione sotto il tendone.
E sabato pomeriggio col cane, il mio Savi, tra i boschi della Maresana, ho pensato a loro, ai taratelli ottocenteschi di Verona, al fatto che in questi giorni manco per un momento mi sono sentito accanto a loro, ma che, forse, questa distanza siderale con me non è neppure colpa loro, ma è per quello che è capitato nella vita a me e a loro. E ci ho riflettuto e mi sono detto che io ho avuto la fortuna e il limite di avere due figli maschi, Vinicio e Zeno. Amano smisuratamente Costanza, la loro splendida, leggendaria e inesauribile mamma, ma non ne sentono il bisogno, così con me, mi vogliono bene, ma per loro è giusto sentire superficialmente che ci sono e che ci sarò un giorno se mai gli mancherà il pane. C’è Costanza, non c’è Costanza, per Vini e Zen cambia poco, ci sono o non ci sarò per via della partita dell’Atalanta cambierà poco, sono uomini e noi uomini siamo così, semplici semplici, cinque, sei cose, quelle: il calcio, Fortnite, il casino, le risa, gli amici; vent’anni dopo il calcio, Fortnite, il casino, le risa, gli amici, la passera; trent’anni dopo il calcio, Fortnite, il casino, le risa, gli amici, la passera, il sessantanove, la birra, meglio se una Tennents.
Le donne no. Partono e iniziano ad accudire il loro papà, di cui s’innamorano sempre e per sempre e che vorrebbero accanto in ogni momento. E’ tutto qui, come figli mi sono capitati due maschi e l’ho già detto non sono per la famiglia tradizionale e non lo sarò mai, ma posso capire chi lo è, i padri che hanno avuto dal cielo una femmina, bimbine che poi diventano donne e che ogni sera per tutta la vita aspettano che il loro babbino arrivi con un fiore per loro, a coccolarle sul divano, a raccontare loro interminabili favole della buona notte.
E per dirla tutta, Chiara, mia sorella, donna bellissima, intelligente, piacevole, simpatica e forte, progressista, madre di due capolavori, i miei nipoti Pietro e Anita, il meglio che c’è al mondo, a quarantasette anni, ancora, sempre e per sempre, prima di andare a letto, pensa al suo papi, Marco. E se ci capita di parlare, e ormai siamo grandi e accade poco perché abbiamo entrambi mille robe, ogni volta parte con quella frase di tanto tempo fa: “Il papà ha bisogno di noi. L’hai chiamato?”.

Matteo Bonfanti