Quattro scudetti, altrettante Coppe Italia e 3 Supercoppe Italiane. Un titolo spagnolo e una Coppa della Regina a Tenerife. Una  Coppa CEV, tre Champions League e, in azzurro, bronzo e argento agli Europei. Maurizia Cacciatori è una bacheca ambulante, eppure davanti agli studenti dell’Istituto Paritario First Campus di Bergamo opta per la lezione della semplicità e della concretezza: “Dietro i trofei alzati ci sono anni e anni di sacrifici, di duro lavoro in allenamento. Non si nasce capitana della Nazionale Italiana, ma si può diventarlo se si pensa in grande fissando degli obiettivi. Siamo quello che decidiamo di essere”.

L’incontro nell’auditorium di via Sant’Antonino, nel cuore del Borgo San Leonardo che alla supercampionessa della pallavolo è sicuramente famigliare – “Abitavo in via Broseta” -, in realtà è iniziato in palestra: “Un mio tecnico cinese mi obbligava a fare cento difese, e alla prima sbagliata si ricominciava da capo. Diceva che avevo le ‘mani pork’, come il maiale che in realtà ha lo zoccolo. Non proprio un complimento. Poi, però, le selezioni le passavo”, ricorda sorridendo. Gli ostacoli, per una sportiva a tutto tondo che ha vinto tutto quel che c’era da vincere, non sono mai stati tali: “Una vita senza passione è sciapa, ma non basta iniziare col volley a nove anni. Bisogna sapersi mettere in gioco. In Umbria, a 16 anni, ero convinta di essere la più forte schiacciatrice al mondo. Mi dissero che non sarei cresciuta tanto in statura, proponendomi di andare a fare la palleggiatrice. Non mi piaceva, non sentivo mio il ruolo. Ma a suon di quattrocento palleggi per seduta, credo di aver combinato qualcosa…”.

Per una che colpiva la palla in attacco a quota 298 centimetri, un passaggio assecondato dalla forza di volontà: “In azzurro un allenatore mi disse che avrebbe puntato su un’altra alzatrice, ruolo che in realtà non sentivo mio e che dovetti fare mio a Perugia, dove arrivai a sedici anni andando lontano dalla mia Carrara per la prima volta in vita mia. Partii insieme a Guendalina Buffon, la sorella di Gianluigi. Vivevamo in un appartamento piccolissimo, imparammo a fare tutto da sole. E dalle mie parti, comunque, c’era chi mi diceva che questo sport non mi avrebbe portato da nessuna parte. Magari oggi quando li incontro camminano a testa bassa. Consiglio a voi ragazzi l’atteggiamento che ho sempre avuto io: voltarmi e dire in faccia ‘ti farò vedere io’.

Una vita e una professione affrontate di petto, come raccontato nella biografia “Senza rete” datata 2018, non senza qualche rammarico. “Quando giocavo ad Agrigento volevo iscrivermi a lingue a Catania, io che ne parlo tre, ho fatto il liceo linguistico e adoravo il francese. Ma quando sei in ballo a livello professionistico non puoi frequentare le lezioni a distanza – ricorda Maurizia -. Mi tengo comunque aggiornata, tra master e corsi d’aggiornamento. Ho sempre studiato anche in pullman e in aereo, ho girato il mondo e non ho mai voluto arrivare impreparata a un appuntamento. La stessa cosa vale per la mia collaborazione con Sky Sport. Lo sport allena l’organizzazione anche negli studi”.

Una disciplina sul campo vale anche per la sfera personale. “La pallavolo allena l’empatia, che è il mio più grande talento. Mettermi nei panni delle compagne, come della famiglia e degli amici, e difenderle. Saper fare squadra al di là delle differenze caratteriali e culturali. Un concetto che ho approfondito alle Olimpiadi di Sidney, dove tutto sembrava troppo grande: lì, al villaggio olimpico, fai colazione, pranzo e cena coi più forti atleti del mondo in tutti gli sport. Lo spirito olimpico è tutto qui. All’inizio, anche se Julio Velasco ci aveva avvertite che non sarebbe stato come gli altri tornei ed era la nostra prima Olimpiade per tutte, andammo in tilt. Poi decidemmo di metterci in gioco senza porci limiti. Una storia che è anche la mia storia. La storia di una che coltiva l’amicizia, che una volta abbandonò il ritiro della Nazionale lanciando le ginocchiere e un’altra evitò una scarpata in faccia da una compagna che voleva punire un’alzata non ben riuscita… colpendo il secondo arbitro”.

Con Bergamo, quasi una leggenda, togliendo il quasi. “Avevamo tutta la città intorno, eravamo sotto gli occhi di tutti, non solo al palazzetto. E sì che ero stata chiamata a guidare una Ferrari senza avere la patente, o almeno così mi sentivo, anche se alla stampa dissi subito sfrontatamente di essere pronta – rammenta la palleggiatrice più decorata d’Italia -. Vincere la Coppa dei Campioni contro uno squadrone russo che non aveva perso un set, mentre noi avevamo perso anche della partite allenandoci quindi meglio alla vittoria, obiettivo per il quale la squadra era stata costruita, è stata una delle emozioni più grandi di tutte, sicuramente la prima. Tutto sommato ho vissuto il successo con tranquillità e serenità, mi fermavano in giro per una foto e l’autografo e andavo in palestra col sorriso. A questa città devo tutto, mi ha fatto imparare a vincere e mi ha dato l’opportunità di farlo tantissimo”.

Altra lezione, l’equilibrio: “I veri vincenti, secondo me, sono quelli che dopo una sconfitta si rialzano a pensano a vincere la partita successiva. Come Kamelia Malinov, mia compagna di squadra. Quand’ero ragazza avevo un’alta opinione di me stessa e delle mie doti, poi cominciai ad avere come compagne atlete che avevano fatto le Olimpiadi e vinto parecchio. Quando una di loro mi chiese che curriculum avessi, risposi di aver vinto il Trofeo Topolino a Montalcino con la Carrarese…”. E il rapporto oggi col volley? “Mi piacciono la Nazionale maschile che ha vinto il Mondiale dedicandolo a Lavia, il migliore, che era infortunato a casa, e quella femminile che ha saputo superare le individualità per fare squadra. Merito dell’empatia. A me piacerebbe allenare, ma una squadra è come un figlio, la devi curare, devi starle dietro sempre – chiude Cacciatori -. Superati i trent’anni mi ritirai perché puntavo ad avere una famiglia mia, all’epoca giocando era difficile avere un fidanzato stando a casa due giorni la settimana al massimo. Ora i miei pensieri e le mie attenzioni sono tutte per Carlos, che fa il portiere di calcio, e Ines, che gioca a pallavolo. Dico sempre loro: ‘Liberi di fare quel che volete, ma fatelo con tutti voi stessi e pensate in grande’.
Simone Fornoni