E così, in anticipo sul mio stupore, mentre stavo a immaginare vascelli, barche, pesciolini rossi, stelle e balene guardando dalla spiaggia il mio unico mare, ho preso anch’io la malattia di questo tempo. Mi aveva sempre lasciato perdere, immaginavo perché avesse bisogno di me, delle mie parole celesti e rosa, azzurre più di tutto, intento come sono stato in questi lunghissimi mesi a raccontare persone bellissime che adesso non ci sono più.
L’ho sentita arrivare sabato sera, ma non ci volevo credere, che ero nella mia settimana di ferie dopo un anno di lavoro. Ero al ristorante in centro, coi sardoncini da mangiare, con la musica intorno, pronto a un nuovo giro di valzer sui miei pezzi di vetro, felice di rivedere visi tutti interi, senza mascherine che io non le sopporto perché non so mentire. Di pomeriggio la malattia mi è saltata addosso, prima alle braccia, poi è andata giù, alle gambe e alla schiena, quindi di nuovo su, alla gola, perdendoci la voce, forte quanto l’acqua salata della Riviera, che a me un pomeriggio di vent’anni fa ha salvato persino dalla malinconia.
Mi chiamava e facevo finta di niente, per allontanarla ancora un pochino. Poi non ce l’ho fatta più e mi sono messo a dormire, nel lettone di Massi, eroe dei tifosi del Cattolica, che amano l’Atalanta e il Bocia, e un senso c’è, doveva essere così per me che sono di Bergamo.
La dottoressa al telefono. Il saturimetro da comperare. Le pile, uguali a quelle del telecomander. I messaggi della Vale, mia mamma. Armi e bagagli, il viaggio, le chiamate, il termometro a trentanove. Il tampone a Zingonia, che con Brivio e Consonno è uno dei tre posti dell’anima mia. La carta per uscire dal parcheggio del Policlinico San Marco, “l’ho persa…”, “ok, sono quindici euro alla cassa”, “posso pagare col bancomat?”, “sì”, “vado”, “bravo”, “arrivederci”, “grazie”, “buona giornata”. La macchina che mi riporta a casa, la Pandona Aranciona a Metano. Guida lei, la mia auto che è anche la mia complice, perché sono completamente rincoglionito per via della febbre. L’isolamento. La dottoressa al telefono: “Come, stai?”. Il saturimetro che dice 98. I messaggi di mia mamma. La mascherina. La dottoressa al telefono: “Come stai?”. Il saturimetro che dice 98. La malattia che mi lascia in pace quasi subito. La dottoressa al telefono: “Come stai?”. Il saturimetro che dice 98. I messaggi di mia mamma.
Sto bene. E poi c’è mio figlio Zeno, fa la spesa, 62 euro per quattro minchiate, cinque pacchi di pasta e dodici sughi della Star che costano quanto un premio in gettoni d’oro Mediaset, ma io neppure ad Alcatraz sotto tortura perché ho una mamma, una nonna e due zie di Bologna e il ragù è solo quello.
Allora l’asporto, la pizza, l’hamburgher, il divano, le Olimpiadi, l’hamburgher, la pizza, il divano, le Olimpiadi, la pallavolo femminile battuta dalla Serbia, la pallanuoto maschile battuta dalla Serbia, il beach volley battuto dal Quatar (ma dove cazzo è il Quatar e poi perché i due che ci giocano non sono del Quatar?). Due passi sotto casa. Prendo o non prendo un Amaro del Capo? E se lo faccio, creo un focolaio? La dottoressa al telefono: “Come stai?”. A posto: il saturimetro dice ancora 98, severo, ma giusto, onesto, non è di quelli che cambiano opinione da un giorno all’altro. I messaggi di mia mamma, “ti amo”, “ti amo anche io”, “curati”, “mi curo”, “mi raccomando, non fumare”. Mio babbo e mia sorella, “tutto ok?”, “sì, tutto liscio”. Monica e Marco, i miei colleghi, “riposa, pensa a guarire…”.
Questo è quanto, il Covid che ho vissuto, ma non fa la regola e non è così importante, perché sono tre giorni che a me di me non me ne frega un beato cazzo. Sono in trattativa con Dio, gli dico “prendi me, fammela tornare, anche pesantona come allora, in quell’aprile, anche accopparmi, ma lascia stare lui” perché mio figlio Vinicio sta ai domiciliari all’ospedale. E sembra che non sia niente di grave, giusto una dozzina di esami da fare e rifare, una manciata di nuove carte da decifrare. E manco dovrei angosciarmi che ha sua mamma lì, che sbranerebbe il sole se la vicenda si mettesse anche solo quell’attimino male. Ma io, comunque, faccio di continuo tre Gloria al Padre, sette Ave Maria e quattro Padre Nostro, sognando di essere al posto suo perché lo amo.
Matteo Bonfanti
Nella foto: io, Vini e la piccola Manila una settimana fa al mare